TUSCANY CROSSING  26 APRILE 2014

Scritto da   MICHELE ROSATI

 

 

PELLEGRINAGGIO IN VALDORCIA

 

Cominciamo con una sintetica, ma accurata, analisi della prestazione del narratore: per tutta la gara la respirazione é stata ottima e mai in affanno, dolori muscolari e da traumi posturali prolungati praticamente assenti, nessuna particolare crisi né fisica né (se mi conoscete un po’, superfluo specificarlo) psicologica; giunto al traguardo in 19h e 31min: ergo, citando una come non mai in questo caso azzeccatissima valutazione tecnica di Luciano Magi, sono andato piano,ma parecchio piano. Del resto non posso dirmi sorpreso, visto la cotta che un paio di settimane fa avevo preso giá al decimo Km della mezza di Sigerico, tanto che all’arrivo, allora sí colto da nera depressione prestazionale, avevo chiesto a Roberto Amaddii se fosse ancora possibile spostare l’iscrizione sulla 50Km. Ovviamente questo folle rinsavimento é durato lo spazio di poche ore; senza scomodare la “volontá di potenza” del burbero montanaro dello scorso anno (ricordate?), il percorso maieutico che, con logica per me lineare ma forse sofistica per voi assennati lettori, mi ha fatto persistere nella scelta originale é stato il seguente: se, vista la condizione a dir poco precaria, dovró comunque camminare per 50 Km, in un pellegrinaggio di 100Km mi divertiró almeno il doppio!
I sacri rituali del mattino della gara sono gli stessi dello scorso anno: sveglia alle tre, barba e bidet, due etti di pasta per non dire mai basta! Unica differenza la partenza in solitario (per il lungo ponte mi trovo infatti al mare), ma appena giunto a Castiglion d’Orcia sapreste indovinare le prime persone che incontro al ritiro del pettorale? Fusi (come la macchina di Lorenzo che ha tirato le cuoia a poche centinaia di metri dal paese) e Bianchi (come i capelli di Simone per i conseguenti improperi uditi); comunque, sciogliendo l’ardito chiasmo, bianchi e fusi lo saremo un po’ tutti, di lí a qualche ora. Se l’anno scorso la faccia di Trottolino prima della partenza era quella di milite fatto prigioniero durante la campagna di Russia, quest’anno é come si fosse fatto pure una decina d’anni nei gulag staliniani. Avendo anticipatamente pianificato di fare buona parte di gara insieme a lui, giá mi convinco che sará una giornata spassosa.
Alla partenza, pur trovandomi dietro le ultime file del gruppo, cerco invano di scorgere l’impavido genitore, per una foto ricordo e forse (spiace dirlo ma l’ho veramente pensato) un estremo saluto; probabilmente meglio non averlo trovato: avesse colto i miei pensieri sarei partito con una racchetta avvolta al collo!
Il mio orologio segna le 5:59 quando, entusiasta orda di pacifici trailers, prendiamo il via calcando i lastricati del borgo ancora addormentato, salendo sul culmine della Rocca di Tentennano da dove la discesa verso il sottostante paese di Rocca d’Orcia offre il miglior biglietto da visita possibile della manifestazione: vista completa su tutta la Valdorcia, magicamente rischiarata dalla sempre piú intensa luce dell’aurora che avanza dall’infinito nulla dietro l’orizzonte, ancora incapace peró di dissolvere i fumi della bruma di cui il fondovalle é ammantato. Sublimi tocchi di pennello uno sparuto gruppo di cipressi che in lontanaza emerge dal vaporoso mare come l’isola che non c’é, ed il maestoso disco solare che da esso sorge e sopra a tutto s’erge. Una buona metá delle retrovie del gruppo, e non esagero, si ferma incantata a scattare foto che perpetuino questi indimenticabili istanti.
Con tale disposizione d’animo, la prima decina di chilometri vallonata, prevalentemente in discesa, tra le crete solcate da viottoli erbosi roridi di rugiada, fila via piacevolmente; attraversato l’Orcia in prossimitá di Bagno Vignoni, imbocchiamo la ciclabile che costeggia il fiume, devastata dall’ultima piena. Ed ecco un primo divertente siparietto: su un tecnico passagio in cui era necessario poggiare il piede su un tronco scivoloso onde evitare di immergerlo in un melmoso acquitrino, non faccio in tempo ad esclamare soddisfatto di aver mantenuto i piedi asciutti, che alle mie spalle odo un sordido splash seguito, di quel Securo il fulmine tenea dietro al baleno, da sonoro moccolo del Bianchi e satanica risatina del Fusi, sopraggiunto proprio in quel momento, giusto per sparire in poche centinaia di metri alla nostra vista, lanciato a velocitá siderale.
Passano pochi chilometri quando, lungo il falsopiano che ci avvicina a Pienza, la pastasciutta della notte, nonché la brioche alla crema prima della partenza, sono state completamente digerite e necessitano quindi di una pronta evacuazione: sperduto tra i campi di grano non mi resta che un sacro bisogno profano, offrendo lo spettacolo in culovisione ad una coppia, di israeliani scopriremo poi, che sta sopraggiungendo. Lorenzo sembra avermi attentamente osservato, non mancando di fare dissacranti paragoni tra il mio fondo schiena e quello dell’avvenente ragazza della coppia appena transitata; forse attingendo da avite reminescenze divinatorie, come quegli stregoni della savana che osservando la disposizione degli escrementi animali predicono il futuro, il trotterellante aruspico, ancora masticando amaro per il Fusi che é sparito all’orizzonte, pronuncia il nefasto vaticinio: “Come faccia Simone non lo so; magari ci impiegherá anche meno di 15 ore, ma se guardi il fisico che ha e consideri che ieri si é fatto pure ottantaquattro chilometri in bicicletta, schianterá anche lui eh?!?!”. Cosí, malignamente rincuorati dalle possibili altrui sventure, ancorché trainati dalla vista del giudaico lato B (ormai cosmopolita costante dei nostri trail), saliamo agilmente verso Pienza e superiamo il primo ristoro in piazza Pio II, davanti al Duomo, per calarci ancora tra le crete verso San Quirico, dove il rifornimento approntato dal Chianciano ci attende davanti alla Collegiata (..... non c’é che dire, siamo proprio pellegrini).
Il calore del sole riverberato dall’argilla comincia a farsi sentire, cosicché dai tanti stagni che costeggiamo le petulanti rane nascoste tra le canne sembrano gracidarci in fiorentino: Gr-Gr-Grulli! Ancora persi tra fantasticherie di un improbabile aggancio al Fusi in notturna, a luci spente e con bastarda volata finale, inframmezzate da interminabili telefonate al meccanico da parte del Bianchi che, visibilmente estenuato da incomprensibili per lui dissertazioni tecniche, alla fine sempre sbotta “Sí, ma insomma, la puoi aggiustare e quanto costa?”, passano veloci anche i chilometri attraverso la val di Tuoma, il crinale di Celamonti, la discesa di Triboli (ristoro sotto il viadotto della Cassia) e Pian d’Asso, fino ad arrivare a Val di Cava, ai piedi dell’erta per Montalcino. Qui notiamo il minaccioso appropinquarsi di una nube temporalesca che, con gradita puntualitá, ci rovescia addosso il suo rinfrescante contenuto proprio nell’ascesa di Sferracavalli; considerando che al suo culmine sará posto il rifornimento del cinquantesimo, decidiamo di non vestirci neppure, salvo Lorenzo che si avvolge sul capo una felpa che aveva a portata di mano, stile nonnina in lutto dell’Ogliastra; non posso far a meno di ridere pensando ad (A)Igor in Frankenstein Junior: lupo ululí, Montalcino ululá!
Il tempo di indossare magliette asciutte e mangiare un caldo piatto di pasta servitoci dalle Sienarunners girls, che smette di piovere; ci incamminiamo cosí verso la seconda metá di gara, con caratteristico passaggio dentro al castello e seguente tratto di bosco, un po’ fangoso per il recente acquazzone, che ci porta a scollinare definitivamente al passo del Lume Spento, dove il lungo crinale verso villa a Tolli abbraccia un vastissimo panorama: a destra la vallata dell’Ombrone fino al mare, a sinistra invece la Valdorcia che abbiamo percorso insieme all’altra ancora da calcare, fino all’Amiata e Campiglia, ahimé ancora lontane. Sulla pietrosa discesa verso Sant’Antimo le gambe si fanno assai dure e giá si accende la luce della riserva; raggiungiamo comunque un altro israeliano (ma quanti sono? Che sia cominciata una nuova Egira?) che ci chiede di scattargli una foto e con cui intavolo una piacevole discussione in inglese, fino al ristoro di Castelnuovo dell’Abate dove, ormai consapevole dell’andatura che verrá, non mi curo piú di tanto di problemi di digestione e mi rifocillo dai coniugi Gattarelli con formaggio e soppressata. Riprendo il pellegrinaggio insieme a Lorenzo che nel frattempo, sentendosi escluso dalla conversazione, si era fatto un po’ scuro in volto; quando ingelosito mi chiede di cosa avessi parlato con l’altro, non mi viene subito in mente di celiarlo con una giustificazione del suo ostinato silenzio dovuto al credo nazional popolare dei trottolini ariani, e cosí gli rispondo sinceramente riguardo alle magnifiche impressioni della gara e del suo contesto che anche l’esotico pellegrino aveva avuto. Dunque rappacificatici, completiamo la lunga discesa verso l’Orcia, ma le mie gambe si rifiutano di correre e cosí lo costringo a camminare il lungo tratto in piano parallelo alla ferrovia, sulla cui massicciata travalichiamo nuovamente il fiume e cominciamo l’interminabile salita verso il ristoro del settantaduesimo chilometro, in cima ai Poggi Pelati, proprio sopra Castiglion d’Orcia. Il Bianchi tiene un buon passo ed io, stringendo i denti ed avvalendomi del prezioso aiuto delle racchette, riesco a stargli dietro, ma ho chiesto troppo ai miei muscoli, arrivando al ristoro veramente stanco e, unico momento di tutta la gara, vistosamente innervosito. Il tempo di una foto di gruppo dei centisti senesi scattata dal Grigiotti, che mi informa dell’avvenuto ritiro da parte del genitore, e di un necessariamente per me lungo rifornimento allestito dai Valenti Amerini e Quartini (da segnalare anche qui l’abuso da parte mia di ottimo pecorino).
Quando ripartiamo sono giá passate le 18 e, nonostante i miei pressanti inviti ad andarsene e l’allettante passaggio del fondoschiena medio-orientale che ci aveva intanto raggiunto, Lorenzo rimane fedelmente con me. La serata si é fatta fresca sotto una leggera pioggerella ed indosso un giubbino leggero a maniche lunghe. Nella discesa verso il fosso devo nuovamente fermarmi per togliere dei fastidiosi sassi dalle scarpe: sembriamo Stanlio ed Ollio, io che seduto sull’argine cretoso del tratturo sono colto da crampi ogni qual volta tento di rinfilarmi le scarpe, lui che misericordiosamente mi aiuta allacciando le stringhe con tecniche dalle complesse circumlocazioni gordiane tipo baby-tessitore di tappeti: di lí a poco avró di nuovo i lacci sciolti! Sulla breve ma ripida salita nel bosco dopo il piccolo guado, staccandomi, lo convinco finalmente ad andare del suo passo. Di lí a poco lo scorgo giá lontano su un lungo tratto dritto, ormai fedifragamente attaccato al posteriore della bellezza israeliana; straziante il tolstojano ultimo addio: quando urlando gli chiedo se mi vuol bene, egli si gira piú volte verso di me e verso ella, rispondendomi al fine con un poco convinto sí; fossimo stati ancora vicino alla ferrovia, avrei forse fatto la fine di Anna Karenina.
Superato comunque velocemente il trauma, anche perché finalmente libero di tenere il mio passo infingardo, direbbe l’Agnorelli, intraprendo in solitario la prima parte della lunga ascesa che mi porta all’attraversamento della provinciale verso Campiglia, dove giungo ormai all’imbrunire ed alla luce della prospiciente locanda scorgo alcune persone a cambiarsi. Imboccata la vecchia strada per il Vivo, raggiungo in discesa il ponte sull’omonimo torrente e, stimolato dalla scrosciante acqua che scorre una decina di metri piú sotto, non so resistere al richiamo della foresta: piazzato esattamente a metá ponte, con gambe orgogliosamente divaricate a mo’ di gerarca fascista, brandisco l’ammennicolo ben unto di vasellina sopra la ringhiera e, calibrando l’alzo a 45 gradi come la fisica newtoniana insegna, comincio lo sparo il piú lontano possibile. Indovinate chi sopraggiunge, quando ormai é troppo tardi per rinunciare all’azione e troppo presto per interromperla? Sí proprio loro, la coppia israeliana che evidentemente si era fermata a cambiarsi e che giá avevo deliziato al mattino. Tento di buttarla sul ridere in un imbarazzato inglese, loro abbozzano un educato sorriso ma, evidentemente sovralimentati dalla mia anatomia, allungano speditamente in salita, lasciandomi prudenzialmente indietro a riportar ordine nella bigiotteria di famiglia, troppo repentinamente riposta.
É buio pesto, ma decido di arrivare comunque al Vivo senza lampada; visto che la strada é buona e non ci sono bivi, mi godo la rilassante oscuritá alla ricerca di me stesso, o meglio delle mie gambe. Le prime incoraggianti luci che scorgo sono quelle del cimitero: c’é ancora da salire un po’ per arrivare alla proloco in cima al paese, dove é posto il penultimo ristoro, circa ottantacinquesimo chilometro. Non faccio in tempo ad entrare che, appena scortomi, i due figli di David sembrano accelerare particolarmente la loro partenza. Mentre sorbisco una calda e gustosa grandinina in brodo (ormai sto affiancando alla competizione un tour gastronomico), mi rendo conto di non esser l’unico a raschiare il fondo del barile: un trailer giá presente da prima del mio arrivo dice di sentirsi male e sviene. Ce ne fosse bisogno mi convinco ancor piú dell’importanza di avere riserve sufficienti, e cosí decido di raschiare anche il fondo della pentola e racimolo un altro piatto di pasta in brodo.
In effetti, indossata pure la giacca piú pesa, esco dal ristoro (fortunatamente nessuno mi presenta il conto) assai in palla, tanto che scalo senza apparente fatica le rampe, anche con scalini, che salgono alle sorgenti. Sentirmi completamente solo nell’oscura faggeta, assordato dall’incessante scroscio dell’acqua che scende impetuosa lí di fianco e la cui spuma riflette la luce della frontale, mi fa sentire una specie di Flash Gordon (si rimandano i lettori agli effetti dell’ipossia cerebrale, molteplicemente citati nei precedenti articoli) cosicché, appena scollinato, mi metto addirittura a correre, oserei dire piuttosto velocemente, in uno dei tratti piú tecnici di tutta la gara, oltretutto reso assai fangoso e sdrucciolevole dalle abbondanti piogge del pomeriggio. Supero un paio di persone, non succedeva da venti chilometri e, scendendo dal rudere della torre di avvistamento di Campigliola, giungo a Campiglia. Dopo una panoramica circumnavigazione della rocca ed una pittoresca discesa tra i caratteristici chiassini, raggiungo il locale dove é posto l’ultimo ristoro e vedo, questa volta senza compagno, entrarvi nuovamente (vi era necessariamente giá transitata) colei che da ormai sedici ore si sta gustando bellezze paesaggistiche ed anatomiche nefandezze. Gaspare e Cristina, i ristoratori, tentano di chiederle il perché sia tornata indietro, ma la barriera linguistica appare insormontabile e cosí mi viene chiesto di intercedere: ormai complici in una scabrosa intimitá, mi dice di aver avuto una piccola distorsione al ginocchio e di non sentirsi sicura nell’affrontare, ove ve ne fossero, altri tratti sconnessi; le spiego che fino all’arrivo ci sará solo un chilometro di discesa un po’ piú impegnativa, ma evidentemente la prospettiva di rimanere ancora un paio d’ore immersa nelle tenebre con all’intorno la personificazione ariana di un Golem sporcaccione, la fa definitivamente optare per il ritiro.
Una volta ben riposato, ma ahimé non rifocillato come speravo (dopo salumi, formaggi e minestra mi aspettavo, acme del climax ascendente, non dico crudité di pesce, ma perlomeno tagliata o vitel tonné) lascio alle spalle il camposanto (angosciante refrain da quando é scesa la notte) e mi inoltro negli ultimi undici chilometri di gara che, tronfio di compiaciuta infingardia, cammino in toto, piacevolmente osservando la méta illuminata che progressivamente si avvicina. La spianata tra Campiglia e Castiglion d’Orcia é disseminata da omai radi lumini, anime ritardatarie del purgatorio; scambio alcune battute con un paio di esse che mi raggiungono per poi nuovamente distanziarmi, fin quando all’attraversamento dell’Onsola, ai piedi dell’erta finale, mi affianca una fiammella dallo spiccato accento trasteverino: “Anvedi ahó! E mo’ ce dovemo da fa’ anche sto zuccherino!”. Ci accordiamo tacitamente nello stare insieme e raggiungiamo, tanto per cambiare, il cimitero: l’organizzatore sembra proprio voler fare del pellegrinaggio di un giorno la metafora della vita, ribadendo insistemente nel finale cosa inesorabilmente ci aspetta; entrambi lo notiamo ma, avendo le racchette tra le mani, non possiamo compiere sacrileghi rituali apotropaici. Da lí decidiamo di correre le poche centinaia di metri che ci separano dall’arrivo: tapascioni sí, ma tapascioni veloci, scherza il mio compagno.
Arrivo meno emozionante dello scorso anno, perché manca il senso dell’impresa (che sarei arrivato, in un modo o nell’altro, ne ero in fondo consapevole sin dall’inizio), ma sempre gratificante anche per il cordiale saluto di Lorenzo e Simone rimasti ad aspettarmi.
Spero di avervi invogliato, affezionati lettori, a partecipare il prossimo anno, per scoprire anche voi questi magnifici panorami ..... della Valdorcia intendo e non delle intimitá del narratore.