TRANS D‘HAVET  25 LUGLIO 2015

Scritto da   MICHELE ROSATI

 

 

 

CORRENDO TRA GLI SPIRITI DEGLI EROI

 

Scrivessi su Facebook mi rivolgerei a lor signore e signori come “Cari Followers”; d’altronde, oltre ad una personale riottositá, diciamo pure mistica avversione, nei confronti delle web communities, mi sembrerebbe oltremodo grottesco chiamare “inseguitori” coloro che, salvo poche eccezioni, mi danno sonore struffate alle corsette domenicali. Ed eccomi cosí costretto ad abusare nuovamente di un incipit ormai trito .......

Affezionati Lettori, é con l’ingiustificato auto-compiacimento di sempre ed una prolissitá ancor piú snervante del consueto, che mi accingo a narrare l’ultima, ma solo in ordine temporale, delle mie avventure trail. Ed ancora una volta, dopo altre ben piú onorevoli campagne sulle Dolomiti, la scelta ricade su quella che agli occhi di tutti apparirá come una debacle sportiva, ma che al folle narratore ha regalato fortissime emozioni ed insano divertimento.

Cominciamo con presentare il cast che, colpa della mia prestazione bradipesca, avrá un ruolo solo prima della partenza .... e molte ore dopo il loro arrivo; immancabile Matto Billera Magi che, meno intraprendente del solito, questa volta si butta sulla distanza “corta” e, forse non fidandosi piú delle mie vieppiú latenti narrazioni, reca seco pure il cronista privato, nonché fido scudiero, Marco Cenni. La pittoresca presenza degli attempatelli Don Chisciotte e Sancho Panza viene peró irrimediabilmente offuscata, non fosse altro che per la presenza scenica, dalla guest star Miss Ruspa da Foiano, al secolo Caterina Corti.

Venerdí pomeriggio durante il tragitto verso Valdagno, Prealpi Vicentine, mentre erudivamo la Miss di colorite espressioni senesi o presunte tali, ho la prima soddifazione della trasferta percorrendo una nuova autostrada, l’A31 della Valdastico, che il non aggiornato Mosé Magi riteneva non esistesse. Arrivati al palazzetto e ritirati i pettorali di gara, guardiamo piuttosto schifati alla misera pasta fredda che viene propinata agli atleti e, visto che sono le 8 passate, decidiamo di comune accordo di cercare una trattoria: sempre meglio morire a corpo pieno piuttosto che soffrire tra gli stenti!

Tra tagliatelle ai finferli, rigatoni al ragú, gnocchi alla fioretta (panna fiordilatte del formaggio) e baccalá alla vicentina con polenta si fanno le 9:30 passate ed, essendo gli autobus verso la partenza previsti alle 10:30, la crescente tensione di Caterina non é poi del tutto ingiustificata. Ritorniamo quindi al palasport e ci cambiamo ... per la descrizione della vestizione, con unzione di piedi e pudenda, vi rimando alla lettura del Cima Tauffi 2013 “Abbigliamento dell’ingegner Rosati: maglia a mezze maniche blu pseudo tecnica con oscena semitrasparenza su cerottoni anti scorticamento capezzoli tipo pezzola della nutrice primi novecento; ibrido ciclista-fuseaux nero con imbarazzanti trasudazioni di vaselina e pasta di Fissan, modello ballerino invalido civile che si esibisce alla Corrida ne “Il Lago Dei Cigni”; scarpe fangose sfondate, da cui fanno capolino entrambi gli alluci valghi ammantati di improbabili calzettoni verdi-viola, punto di orgoglio dei piú sfigati campesinos boliviani;  zainetto fotonico con borracce e bastoni legati, stile Rambo de noialtri alla scoperta dell’alto corso dello Staggia.”  L’oscenitá di come sono agghindato viene oltremodo amplificata dal make-up di Miss Ruspy proprio nei gradoni della tribuna accanto a me: dal baule che si é portata non sa se scegliere la gonnellina o dei deliziosi pantaloncini che le evitino un’abbronzatura non uniforme; mentre io sto bestemminado con le forbicine rotte per tagliare il cerotto da avvolgermi intorno alle deformi dita dei piedi lei si raccoglie i capelli e mi aspetto che da un momento all’altro tiri fuori la lima per la manicure. Fatto sta che lei finisce di sistemarsi prima di me e corre trafelata verso gli autobus; ovviamente me la prendo calma sicuro della solita miriade di ritardatari .... ed infatti quando arrivo trovo il Magi davanti all’ autobus, al quale impedisce la partenza, che urla: “Eccolo arriva, c’é anche lui!!!”

Ed ecco cosí che Caterina ed io partiamo verso Piovene Rocchette, dove a mezzanotte é fissata la partenza della Trans d’Havet, mentre Luciano, che partirá da Pian delle Fugazze l’indomani alle 9 dopo aver accompagnato Marco ad imboccare in passeggiata autogestita lo straordinario tratto del Pasubio, rimane a dormire a Valdagno con il fido amico. Lungo il tragitto la tensione attanaglia sempre piú la mia compagna d’avventura, che ormai non proferisce piú parola e cosí anch’io, lungi peró dall’essere nervoso, comincio a chiedermi se sia stata proprio una buona idea lanciarsi in 83Km con 5600m di dislivello positivo dopo 3 settimane di ferie interamente consumate nei bagordi di vittoria Palio e con l’unico allenamento del Salitredici dove giá boccheggiavo al primo rifugio.

Scesi a Piovene, tra la festante popolazione che balla il liscio alla sagra del paese, Caterina va sempre piú nel pallone e litiga con il camel bag che le si é intasato ed il cui tubo le dá noia; ha un momento di sollievo quando, guardando al meteo sull’I-phone, riscontra che non sono piú previsti temporali: non ho il coraggio di farle notare come al briefing di meno di un’ora prima li avessero previsti ed anche piú intensi, seppur brevi, di quelli che l’anno scorso avevano fatto interrompere la gara e soprattutto, guardando alle montagne, era alquanto improbabile che avessero organizzato fuochi d’artificio in tutti i rifugi!   

Finalmente facciamo la punzonatura ed entriamo in zona partenza quando mancano circa dieci minuti a mezzanotte; Caterina si dice convinta a fare almeno la prima parte della gara insieme a me, sebbene piú volte edotta del fatto che il sottoscritto, se ha una sola speranza di finire la gara, é partire non piano .... bensí pianissimo. Cosí mi sistemo comodamente un paio di metri dietro l’ultima fila dove abbonda lo spazio e avrei potuto beatamente procedere alle orazioni liturgiche con funzione apotropaica, non fosse che alla Miss, sempre decisa a partire insieme a me, la rincorsa sembra sin troppo penalizzante ..... capita l’antifona, conscio che non sará ancora per molto, l’accontento e scaliamo un quarantina di posizioni, occupate effettivamente da quei trailers un po’ chiattoni su cui non scommetteresti un centesimo, ma che quasi sempre arrivano in fondo... (parlo ovviamente per esperienza personale). A mezzanotte spaccata partiamo tra gli applausi e gli incitamenti di molte persone sparpagliate per le strade di Piovene che, dopo poche centinaia di metri, cominciano a salire leggermente, ma abbastanza per convincermi a camminare ..... Caterina si gira indietro una volta, poi una seconda e alla fine sparisce dietro la curva: ecco, la prima parte di gara insieme é terminata!

Dopo un paio di Km in falso piano usciamo finalmente dalla pianura civilizzata e svoltiamo a sinistra lungo una carrareccia nel bosco dove il lungo serpentone di lumicini comincia a salire. La salita non é molto ripida, soprattutto se camminata, ed i primi Km passano agevoli osservando le luci della vallata che si fanno sempre piú basse sotto di noi ...... non é ripida, ma sembra non finire mai: dopo un tratto piú dolce con una seppur brevissima discesa, entriamo in un sentiero che continua a tirare deciso mentre d’intorno, oltre ai lampi, si cominciano a sentire distintamente anche i boati dei tuoni avvicinarsi. Trovo un buon passo che mi consente di recuperare venti – trenta  posizioni, in equilibrio biodinamico con potenza espressa, liquidi assunti ed alcool residuo nel sangue espulso con la sudorazione tra inebrianti effluvi. Usciamo dal bosco nei pressi del Santuario della Madonna del Summano (o dei Frati Girolimini) sotto il cui portale, cominciando a cadere le prime gocce di pioggia, molti trailers approfittano per indossare mantelline e quant’altro; visto che la strada, in questo punto una larga carrozzabile cementata, continua a salire, preferisco continuare a disperdere la sudorazione alcoolica nell’ambiente, piuttosto che creare una sacca esplosiva tipo grisú tra la cute e la giacca impermeabile. Svoltiamo a destra nell’ultimo tratto di sentiero single track che si inerpica verso la vetta del Summano, tra lampi sempre piú accecanti e tuoni piú assordanti: come per destino, proprio nel momento in cui raggiungo la Croce con il Redentore (.... che scopriró essere in cemento, perché le precedenti in legno sono state piú volte incendiate dai fulmini!), dopo piú di 1000m di ascesa in 10 Km, dove 2 martiri protetti da un incerato fanno il controllo pettorali, il cielo é letteralmente squarciato da una saetta che cade a poche decine di metri, illuminando a giorno tutta la sommitá del monte cosparsa di decine di trailers, sorta di improbabili ballerini sotto le luci stroboscopiche in una pista di discoteca che si va svuotando. Non mi sembra il caso di soffermarmi a godere dello splendido panorama e, dopo un tratto semplice su prato, entriamo in una zona cespugliosa con piante di basso fusto e la discesa, in cresta e con alcuni tratti esposti in bilico sulla Valdastico, diventa difficile: la notte illuminata a giorno dai fulmini, l’acqua che ormai viene tirata a secchi da impetuose folate di burrasca (ormai bello risciacquato, fregandomene del grisú, indosso ben volentieri la mia giacca impermeabile), il nervosismo crescente, per non dire fifa blu, dei concorrenti che si sentono bersagliati da un Giove cecchino, fanno il resto e, in prossimitá dei passaggi piú tecnici, si formano dei veri e propri ingorghi dove i secondi fermi ad aspettare che la fila si muova sembrano essere interminabili ore. Finalmente, tagliando un paio di tornanti tra la macchia e rischiando di stroncarmi l’osso del collo, riesco a superare sette – otto persone che facevano da tappo e, accodandomi ad un altro pellegrino incappucciato, percorro il resto della discesa, un po’ piú agevole ma comunque sempre ostica, con una buona andatura; quando raggiungiamo il gruppone successivo, stiamo ormai entrando in un ampio stradone sterrato, ha quasi smesso di piovere ed a 100m si vedono le luci del primo ristoro.

Mentre mi rifornisco di coca e sali, apprendo dalle comunicazioni via radio che sono stato uno degli ultimi “fortunati” a passare, in quanto per ragioni di sicurezza la corsa é stata successivamente deviata sulla strada carrozzabile nel tratto tra il Santuario ed il ristoro, evitando la vetta del Summano ed il sentiero delle Creste. Soddisfatto per aver finora mantenuto il percorso originale, mi avvio con una blanda corsetta sullo stradone pianeggiante fino a quando imbocchiamo un sentiero sulla destra che comincia a salire nel bosco tra un’infinita serie di tornanti. É il momento di affidarsi nuovamente ai leggerissimi, ultra tecnologici, nonché cari arrabbiati bastoncini allungabili a quattro sezioni comprati neppure due mesi prima ed al loro terzo ultra trail appena: mentre impreco contro uno che non riesco a bloccare nella posizione desiderata, decido di usare l’altro tipo gondoliere come avevo giá fatto all’Elba ad Aprile, non fosse che anche questo tende ad accorciarsi e, mentre furibondo tento di sistemarlo, mi si sfila completamente rimanendo in due pezzi. Guardando al cielo non mi sembra la serata adatta per inveire contro le Deitá  e provocare ulteriormente Iuppiter Pluvis, cosí la prendo diciamo bene e mi rassegno a portare in mano i bastoni, visto che ormai neppure si ripiegano e non mi entrano nello zaino. Con infausto tempismo mi sovviene la celeberrima battuta di Marty Feldman in Frankenstein Junior: “Potrebbe andare peggio!” “E come?” “Potrebbe piovere!”. Non faccio in tempo a riderci su che, puntuale come le tasse, appena il sentiero lascia il bosco ed entriamo in ampi pascoli privi di qualsivoglia riparo, si scatena nuovamente il fortunale tra fuochi d’artificio ed acqua che ci arriva addosso come gettata dai canadair antincendio della protezione civile. Il sentiero erboso é ormai sommerso dall’acqua che arriva sopra le caviglie e, mentre procedo chino come per favorire la penetrazione nel monolitico muro di pioggia, faccio attenzione a tenere i pezzi dei bastoncini che ho in mano il piú orizzontali possibile rispetto al terreno, onde evitare nuove sperimentazioni del dispositivo giá brillantemente brevettato da Benjamin Franklin secoli or sono. Finalmente, nei pressi di un trivio, c’é una jeep del soccorso alpino con all’interno due volontari che se la dormono alla grande: ne approfitto per lasciare i poveri resti metallici appoggiati al veicolo e liberarmi perlomeno le mani.

Raggiunta la Busa, il piccolo altipiano sulla sommitá del Monte Novegno, cessa nuovamente di piovere ed a circa un Km di distanza si intuisce la presenza del secondo ristoro, raggiungibile attraverso un comodo stradone sterrato tra centinaia di lumi che per un momento sembrano essere lucciole giganti, ma che si rivelano poi occhi riverberanti le luci delle frontali di mucche in alpeggio, dalla cui espressiva mimica si intuisce tutta la bovina compassione nei nostri confronti. Il ristoro, approntato dagli Alpini, si é trasformato in una sorta di spogliatoio dove molti approfittano per mettersi indumenti asciutti; personalmente non ho affatto freddo, considerando poi il rischio di nuovi temporali in agguato ed il fatto che in ogni caso sarei fradicio di sudore di lí a breve; dopo essermi lautamente rifocillato con pane, pomodoro, speck, formaggio e frutta secca, riprendo il cammino lungo un sentiero che si addentra nel bosco. Adesso che sto scrivendo mi rendo conto che non siamo passati, come previsto, dal Forte Rione; probabilmente per evitare i fulmini abbiamo deviato sul sentiero 411 che corre abbastanza pianeggiante sottocosta, un centinaio di metri piú in basso e parallelo al 401 originariamente previsto e con il quale, giusto il tempo di finire una banana che mi ero portato come dessert, ci rincrociamo all’inizio di una lunga ma facile discesa, che in pochi Km ci porta dai 1600 ai 1000m di quota, attraversando pure due brevi gallerie scavate nella roccia durante la Grande Guerra: solo un insignificante antipasto di ció che ci attende! 

Interrompiamo la discesa svoltando a destra per un sentiero che sale subito deciso dentro una nuvoletta di nebbia; guardando l’altimetria della gara pare un insignificante dentello, ma superare i 200m di dislivello in meno di un Km per raggiungere il Monte Alba si rivela una vera ed inaspettata sofferenza, condivisa anche dai miei colleghi, almeno a giudicare da come ognuno di noi si aggrappa alla bell’e meglio ad ogni cespuglio o ramo disponibili per procedere faticosamente di qualche passo in avanti, evitando di scivolare indietro nel terreno reso viscido dalla pioggia. Quando sulla cima il sentiero finalmente spiana, la nebbia é scomparsa e la luce dell’alba permette di spengere la frontale; una breve e ripida discesa ci porta ad attraversare la strada asfaltata in prossimitá del passo Xomo, dove é allestito il terzo ristoro, al trentesimo Km circa.   

Vista l’ora e la presenza di comode panche e tavoli intorno al rifugio, opto per una bella sosta con lauta colazione e ne approfitto per studiare la cartina; realizzo cosí che sono ai piedi della terza grande asperitá di giornata: il Pasubio, con il suo migliaio di metri di dislivello in circa 6 Km, ma soprattutto con quella che per me, almeno sulla carta, é la maggior attrazione turistica di tutto il trail, ossia la strada delle 52 gallerie che dovremo percorrere per scalarlo. In realtá prima di arrivare ad imboccarla dobbiamo ancora salire circa 200m, per un breve ma duro tratto di bosco e poi alcune centinaia di metri su una strada asfaltata da cui si gode il magnificente spettacolo della montagna aggettante sopra di noi che, illuminata dal sole nascente in una giornata fattasi miracolosamente tersa, si ammanta dell’ammaliante rosa caratteristico di quelle che, non a caso, vengono dette Piccole Dolomiti. Ma é una volta imboccata quella conosciuta anche come strada della Prima Armata che l’emozione ha un effetto devastante su di me: vuoi per la stanchezza di una notte passata in bianco, vuoi per l’effetto rebound di una momentanea sospensione di adrenalina con il cervello non piú focalizzato sulla competizione, fatto sta che non posso fare a meno di piangere commosso ammirando ció che cento anni fa sono stati capaci di fare gli eroici Alpini per poter rifornire i loro compagni in prima linea sulla vetta del monte. Alcune gallerie sono brevissime, neppure dieci metri, altre le imbocchi senza riuscire ad intuire dove ti condurranno: dopo aver percorso centinaia di metri in una sacra oscuritá ancor pregna dell’ardore degli spiriti che un tempo vi furon, ti ritrovi decine di metri sopra l’imboccatura oppure in un versante diverso, da dove si aprono nuovi e magnifici scorci sulle montagne d’intorno. Perlomeno quindici di esse meriterebbero un capitolo a parte per una descrizione approfondita; dovendo forzatamente scremare la scelta, mi emoziono ancor adesso riandando con la mente  alla sequenza delle gallerie 19 (Re Vittorio Emanuele III) e 20 (Generale Cadorna). Entro nella prima con la frontale spenta per non disturbare gli almi spiriti che vi riposano; imbocco un primo tornante con un filo di luce che ancora trapela dall’ingresso alle mie spalle e che, quando ormai mi sento perso nella piú totale oscuritá, lascia spazio ad un altro barlume che questa volta filtra davanti a me; non proviene peró dall’uscita, bensí da un enorme finestra che si apre a picco sul fianco della montagna e che illumina anche la parte iniziale del successivo tornante; mi avventuro ancora a luce spenta e mentre l’ultimo spiraglio luminoso svanisce alle mie spalle, procedo a tentoni con la mano appoggiata sulla parete del tunnel per intuirne l’andamento ed aspettando con ansia di vedere un po’ di luce comparire nuovamente davanti a me; quando peró ho la sensazione che la curva sia terminata e (mi lancio in un ardito ossimoro) di luce neanche l’ombra, decido che é tempo di accendere la frontale che mi ero opportunamente lasciato sulla testa ....... non fosse che, probabilmente a causa dell’acqua presa durante tutta la notte, decide di piantarmi in asso anche lei: mi trovo cosi nella kafkiana situazione di non poter prendere la lampadina di riserva che, avvolto nelle tenebre come sono, non riuscirei probabilmente a rinvenire nello zaino ed anche tornare indietro al buio in una discesa sconnessa e piena di gradoni irregolari non é una prospettiva allettante; provo quindi ad andare avanti in salita a tentoni ma, non avendo considerato la curvatura della parete, una sonora testata nella roccia mi fa desistere anche da questo proposito; quando sto per essere colto da un po’ di nervosismo panico, odo lontano il familiare ticchettio dei bastoni che diviene sempre piú nitido fin quando un raggio trapela dalla curva appena percorsa e dopo poco compare un trailer con frontale funzionante che vedendomi si ferma stupito; spiego brevemente la situazione al mio Virgilio e percorro insieme a lui il tratto rettilineo in cui mi trovavo, il successivo tornante, il successivo rettilineo con finestrone e l’ultimo tornante con rettilineo verso l’uscita, per un totale di 320m di sviluppo piano con una struttura elicoidale a tre livelli!  Uscito a riveder le stelle su un pianello sospeso nel vuoto tra due speroni di roccia, a pochi metri di distanza inizia la galleria successiva che, leggo nella targa posta all’ingresso, misura 86m e, osservando come giá cominci in curva, decido che é tempo di attivare la lampadina di scorta che ho nello zaino. Percorrendola, la struttura di questa é se possibile ancor piú sorprendente della precedente: si tratta di un vero e proprio cavatappi che sale ripido all’interno della montagna avviluppandosi su se stesso con spire sempre piú strette e comunque sempre abbastanza illuminato da aperture che si aprono verso l’esterno. Solo all’uscita su un pianoro incassato sulla parete verticale del monte, posto una ventina di metri sopra l’ingresso, mi rendo conto di cosa abbiano realizzato questi eroici antesignani progettatori di strutture da luna park: sfruttando un torrione dalla forma a camino, tipo quelli caratterisitici della Cappadocia, ma composto da dura roccia e non da malleabile tufo, vi hanno scavato all’interno una scala a chiocciola che ne spunta fuori proprio dal vertice sulla sommitá. Non posso fare a meno di fermarmi per l’ennesima volta a rimirare affascinato questa e le altre mirabolanti strutture giá percorse sotto di me e quelle che intuisco per centinaia di metri sopra la testa ed ancora da affrontare.

Non so dire se impiego una oppure due ore a percorrere la salita: nonostante il notevole dislivello il tempo per arrivare al passo Val Fontana d’Oro, praticamente quasi sulla vetta del monte, corre via velocissimo; da lí un breve tratto in discesa con le ultime spettacolari gallerie e dai panorami mozzafiato ci porta al  rifugio Papa. Entriamo nella Strada degli Eroi, resa carrozzabile dopo la guerra, di cui si vede sotto di noi quasi tutto lo sviluppo tra tornanti e gallerie, compresa la galleria d’Havet che dá nome al trail, fino al passo di Pian delle Fugazze, punto del successivo ristoro. La lunga discesa, circa 800m di dislivello, si fa sentire nelle gambe, complici anche alcune fastidiose vesciche risultato di una notte con i piedi a sguazzo, soprattuto gli ultimi Km abbastanza disagevoli dove tagliamo i tornanti della strada attraverso sentieri ripidi e sconnessi. Arrivo al ristoro un po’ prima delle 9, esausto ma con quasi due ore di anticipo sul cancello orario: é tempo di una sosta come si deve! Decido di cominciare la seconda colazione con una pastina in brodo, non tanto caldo quanto decisamente ustante; giá stravaccato sulla panca a portata di mano ho solo una bottiglia di acqua frizzante e, troppo pigro per alzarmi, mi invento una nuova ricetta: “consommé pétillant”, roba da far impallidire i migliori gourmet! Mentre  ormai sono lanciato nella cucina creativa, con gli accostamenti piú improbabili tra cioccolata, affettati e frutta secca, vedo ad un centinaio di metri di distanza il gruppo compatto del trail-maratona appena partito sfilare lungo il sentiero: perfetto, sono giá avanti e cosí non dovró neppure preoccuparmi di farli sfilare. Quando mi accingo a ripartire fa la sua comparsa un’altra Miss Trail dal familiare aspetto, Eleonora Iannuzzi, in veste di accompagnatrice ufficiale di Chiara Lorenzini, appena partita. Non mi pare il vero di soffermarmi altri 5 minuti a chiacchiera e mentre ci avviamo insieme verso l’inizio del sentiero, passo accanto alla  mia macchina parcheggiata, in attesa del Cenni che si sta facendo in autonomia il tratto da me appena percorso del Pasubio: confesso, pensando ai 40Km che ancora mi attendono, di esser caduto in tentazione, ma é solo un istante e, salutata Eleonora, imbocco l’ennesima salita. Sono 400 metri di dislivello, ma il sentiero sale nella piacevole ombra di una faggeta; trovo pure i legni adatti per farmi due bastoni improvvisati e, raggiunta una trailer indigena che mi dá un sacco di notizie interessanti sulla zona e sul percorso, ci facciamo insieme, rigorosamente camminando anche il breve tratto di discesa superato il Cornetto dalla Selletta di Nord Ovest e tutto il successivo dolce saliscendi, fino al quinto ristoro presso Passo Campogrosso, antico confine tra Regno d’Italia ed Impero Austrungarico.

Grazie all’ultima ora di relativo relax ho recuperato le forze e, dopo una buona birretta, fatta scorta di acqua e coca cola, mi sento pronto ad affrontare l’ultimo grande spauracchio di giornata, il Carega che si staglia minacciosamente imponente di fronte. L’avvicinamento é su un sentiero che, sotto un sole che si fa fastidiosamente caldo, corre in leggera salita alle sue falde per poi impennarsi progressivamente fino al limite di un immenso ghiaione, il Vallone Pissavacca. I quattrocento metri di dislivello da coprire in poco piú di un Km si preannunciano come “uccelli per diabetici”, direbbe Lino Banfi. Fatto tesoro dell’esperienza in salite simile affrontate negli ultimi trail alpini, procedo con passetti brevissimi ed un andatura assai lenta (penso siamo intorno ai 25 – 30 min a Km), ma con la quale non vado mai in affanno. Mentre infatti vengo recuperato soltanto da un gruppetto di tre uomini, che riescono ad andar su molto piú veloci, sfilo diverse persone messesi a sedere sconvolte dalla fatica, tra cui una ragazza che immediatamente riconosco per aver trovato in una simile situazione sia al Dolomiti Extreme che al Cortina Trail in giugno: anche lei mi riconosce immediatamente e non trattiene una risata dicendomi che questa volta da qui non riparte. Gli ultimi cento metri sono quasi da alpinismo, ma finalmente scollino a Bocchetta Fondi, sul displuvio tra la valle dell’Adige verso Rovereto e la valle dell’Agno verso Vicenza. Siamo oltre i duemila metri e il vento che soffia impetuoso attraverso la stretta selletta é una sorta di magnifico condizionatore naturale; sfrutto un pietrone largo e levigato come letto e, poggiatovi lo zaino sopra a mo’ cuscino, mi godo sadicamente lo spettacolo dei trailers che ancora arrancano nel ghiaione centinaia di metri piú in basso. Ai volontari del soccorso alpino che, avviluppati nelle loro giacche, mi fanno notare come stare in maniche corte a quel vento possa far male, ribatto che, se non mi ha ucciso la salita appena fatta, nient’altro puó farlo!

Studiando ancora l’altimetria, scopro che ci sono ancora 200 metri da salire ed in effetti, dopo una breve discesa su sentiero sottocosta nel versante veneto, vedo un erto pendio che sparisce dentro una nuvola su cui arrancano alcuni trailers; mi faccio coraggio ed una volta entrato nella nuvola, scopro con piacere che la salita diviene molto piú dolce e con un paio di tornanti conduce finalmente al rifugio Fraccaroli, praticamente sulla vetta, dove é allestito un rifornimento idrico e da cui immagino si godrebbe di un panorama splendido sul Trentino, non fosse per la nube fantozziana in cui sono capitato. Mi aspettano piú di 400 metri di discesa, prevedo non agevolissima, verso il successivo ristoro e sapendo giá di camminarla, indosso la giacca. Dopo poco esco dalla nuvola che a breve viene spazzata via anche dalla vetta e cosí posso finalmente godere della vista di tutta la magnifica conca che da questo lato scende ben piú dolcemente che dal versante trentino precedentemente affrontato, fino al rifugio Scalorbi, dove é allestito il sesto ristoro.

Nonostante l’ultimo Km sia piuttosto agevole, vi giungo camminando a causa di un dolore che si sta acuendo dietro al ginocchio destro, non capisco bene se al tendine o ai legamenti. Steso sull’erba ad un tiepido sole, con ormai tre ore di vantaggio sul limite del cancello orario, é ora di pranzo ed un po’ di pane e speck annaffiato con della birra sembra proprio fare al caso. Riparto di buon umore per affrontare gli ultimi 25Km prevalentemente a favore, anche se si comincia con la leggera salita su ampia mulattiera verso il Passo Plische da cui, dato un ultimo sguardo al Vallone di Campobrun dominato dal Carega, comincio a corricchiare, nonostante il dolore, per una discesa piuttosto rognosa che porta al Passo Tre Croci  (o della Lora), da cui comincia ancora una salitella, molto simile alla precedente, fino al Passo Zevola. A questo punto mi attendono 5Km buoni di discesa che, escluso un brevissimo tratto iniziale, si presentano subito dopo assai agevoli su strada erbosa di pascolo nell’alta Val Fraselle fino all’omonima malga nei pressi di passo Ristele ed ancora piú dolci, quasi pianeggianti, fino al Passo della Scagina; qui la musica cambia perché il sentiero sprofonda in uno stretto canalone con una successione di ripidi tornanti fino a dei punti attrezzati per attraversare un ripido costone roccioso e finalmente sfocia al rifugio Bertagnolli, settimo e penultimo ristoro.

Adesso, oltre ad essere esausto, i legamenti posteriori del ginocchio mi fanno veramente male. La minestrina in brodo e neppure l’ennesima birra sortiscono il taumaturgico effetto desiderato; sono circa le 4 di pomeriggio ed esito per una ventina di minuti buoni prima di riprendere il cammino (.... corsa non lo sará piú certamente) e coprire gli ultimi 17Km, di cui 13 in discesa. Alla fine riparto, anche se un po’ incupito, per un tratto su ampia strada carrabile in leggera ascesa che lascio svoltando a sinistra per un sentiero abbastanza ripido che ne taglia i tornanti in salita, l’ultima della gara, all’interno di una faggeta. Raggiungo un altipiano a pascolo nei pressi di Malga Campodavanti, che percorro svogliato per alcuni Km in direzione sud-est fino a Cima Marana, giá preoccupato per come affrontare l’ultima interminabile discesa con il mio ginocchio dolorante. Ivi giunto do un ultimo sguardo compiaciuto all’orizzonte, dove riconosco abbastanza distintamente tutto il percorso fatto (quasi perfettamente a nord si vedono il  Summano ed il Novegno, piú a ovest si scorgono nella loro imponenza il Pasubio ed il Carega); al contempo guardo preoccupato al fondo valle, dove Valdagno se ne sta circa 1400m piú in basso.

La prima parte della discesa é veramente ostica, ripida e dal fondo assai malmesso su cui ogni passo é una fitta di dolore; superato l’ultimo rifornimento a Malga Rialto dove, onde evitare un possibile alcool test all’arrivo, rifiuto la birra, le cose migliorano e si comincio a percorrere comodi sentieri e stradoni attraverso le varie Contrade alte di Valdagno; ma il dolore sempre piú forte e lo scenario sempre meno montano e spettacolare mi infastidiscono sempre piú, per non parlare di tutti quei concorrenti che, raggiungendomi correndo e lasciandomi fermo sul posto, si informano premurosi delle mie condizioni di salute: mi chiedo se sia davvero possibile che in questo mondo sia io l’unica persona egoista alla quale non importa un accidente degli altri e che sarebbe persino contenta di terminare da solo una corsa dove tutti si sono dovuti ritirare per disgrazie varie  ..... non fosse altro che cosí sarei pure vincitore!

La misantropia lascia spazio ad una giovialitá piú umana, quando un volontario sul percorso mi informa che manca circa un Km alla fine; agli ultimi 500m entrando in paese termina la discesa e , a distanza di piú di 4 ore dall’ultima volta che lo avevo fatto, abbozzo pure una simil specie di corsa; persino il Magi, che puntuale arriva a scortarmi all’arrivo propalando agli astanti informazioni sul mio conto assolutamente superflue e non richieste, non mi infastidisce piú di tanto, anzi ....

Pur non sentendomi tale, devo avere un aspetto alquanto devastato, visto che Luciano e Marco si prendono cura di me con mille attenzioni e mi informano che Caterina, arrivata circa quattro ore prima, ha avuto problemi di digestione durante tutta la gara ed é momentaneamente sotto Plasil, monitorata dal medico. Fortunatamente la vedo uscire sulle sue gambe dalla postazione medica, anche se con un colorito piuttosto slavato ...... vergognandomi un po’, visto che sento un certo languorino, faccio notare come, mancando pochi minuti alle 9, sia per l’appunto l’ora di cena.