ULTRA-TRAIL DU MONT BLANC 2015

 

Finisher :  MICHELE  ROSATI

 

Venerdi 28 agosto 2015

Lunghezza:  km 169,9

Dislivello positivo:  m. 10083

 

 

ALLA CONQUISTA DEL PARADISO

 

Affezionati lettori, eccomi di nuovo a solleticare il vostro anelito alle grandi, o presunte tali, imprese. Sí perché questa volta, nonostante desideri continuare ad usare il mio stile canzonatorio senza prendermi troppo sul serio, non so se saró capace di nascondere il compiaciuto orgoglio che mi pervade; quindi mettiamo subito in chiaro una cosa: sono oltremodo fiero di aver portato a termine l’Ultratrail del Monte Bianco, 170Km con 10000m di dislivello positivo .... e potremmo finirla qui, senza specificare, come sua manu ha fatto il fin troppo zelante genitore nel suo sito web, quanto ció sia avvenuto rasentando tutti i cancelli orari, ben 11 e arrivando, praticamente per il rotto della cuffia, a meno di tre quarti d’ora dal tempo massimo, dopo quasi 46 ore di pellegrinaggio alpino.
Prima di avventurarvi nella lettura, siate quindi consapevoli che la lunghezza del racconto é direttamente proporzionale al tragitto percorso.
Come in tempi non sospetti scrissi nel 2013, l’UTMB rappresentava una chimera sin da quando mi sono avvicinato (mia moglie direbbe incurabilmente ammalato) al trail. Il fatto é che in ogni benedetta locandina degli ultratrail viene sempre specificato se questo vale 1, 2, 3 o 4 punti UTMB. Per molti di voi ció non significa niente e cosí era anche per me; ma ad ogni gara, come si faceva da bambini con le figurine, sentivo gente discutere di quanti punti UTMB avesse o le occorresse fare e alla fine decisi di informarmi, scoprendo che un numero minimo di punti totalizzato in massimo 3 gare negli ultimi 2 anni era il requisito per potersi iscrivere all’Ultra Trail del Monte Bianco appunto, salvo poi aver la fortuna di essere estratti a sorte. Cosí già a Dicembre 2013, avendo i punti richiesti precisi precisi, tentai l’iscrizione per il 2014, senza peró venir estratto; a distanza di un anno, avendo ancora i requisiti e priorità di estrazione doppia ho tentato nuovamente e, tra le oltre cinquemila richieste idonee, sono stato uno dei 2300 fortunati estratti a poter partecipare all’UTMB 2015.
Ovviamente, soprattutto il primo anno, mi sono lanciato in quest’impresa senza avere la minima idea di cosa significasse stare a zonzo a 2000m di altitudine per un paio di giorni, ma sicuro che dovesse essere alquanto ganzo, visto il numero di persone che da tutto il mondo vi ambisce. Al momento di pagare l’iscrizione (quando c’é da spendere si tende ad usare anche il cervello) ho studiato il percorso con maggiore attenzione e, in considerazione anche della maggiore esperienza acquisita, mi sono improvvisamente reso conto della potenziale disfatta cui andavo incontro e di come si sarebbe in qualche modo compiuto, o meno, il mio destino di trailer. Il 20 Gennaio 2015, osservando le coordinate della mia carta di credito sul monitor del computer come Cesare quasi esattamente 2064 anni prima scrutava il Rubicone, premendo invio ho finalmente escalamato: “alea iacta est”!
Fatto il piú, perché una volta pagata l’iscrizione ci si presenta al via ed una volta partiti in qualche modo si arriva (sofistico compendio del Rosati pensiero), il resto é la routinaria follia che lisergicamente si rinnova sempre uguale a se stessa, ma estrinsecandosi in emozioni avvertite ogni volta come uniche ed irripetibili.
Fatto sta che a differenza del solito, complice forse la prolungata mancanza di sonno, nelle settimane successive ho faticato molto a rimettere ordine ai miei ricordi, confuso collage tenuto insieme da una sensazione di soddisfatto appagamento. Per quanto inzuppare il muffin alla carota marchiato Air France nel cappuccino Nescafé a base di polvere liofilizzata ed acqua calda possa sembrare antitetico al rievocativo gusto della “madeleine” decantata da Proust, é stato in questo frangente che, in volo da Firenze a Parigi, dopo dieci giorni ho rivisto in tutto il suo splendore il Monte Bianco e, senza una nuvola in cielo proprio come durante i due giorni di corsa, ho distintamente riconosciuto il Lac Combal, la Val Veny, Courmayeur, la Val Ferret, Vallorcine, Chamonix e sono stato catapultato indietro nel tempo, finalmente capace di ripercorrere, in maniera vivida e distinta, tutti i sentieri e gli anfratti dell’UTMB .......
Trascorso il venerdí mattina a dormicolare nel letto dell’appartamento che avevamo affittato (una settimana di vacanza in montagna fa apprezzare il trail anche alla famiglia), mi faccio preparare dalla consorte una razione abbondante di pasta condita con formaggio ed olio, portato appositamente da casa. Un ultimo fugace controllo allo zaino preparato la sera prima e ci avviamo verso Chamonix, a 20 minuti di macchina. Facendo la lunga coda per depositare la sacca con il cambio che avremo a disposizione a Courmayeur, mi appare evidente nella sua magnificenza quello che già avevo notato il giorno prima al ritiro del pettorale; sono rappresentate piú di ottanta nazioni e la varietà della fauna, per caratteristiche fisiche, di abbigliamento e fornitura tecnica é la piú eterogenea e strabiliante che si possa osservare: personalmente, vista la conformazione genotipica ariana ornata con cerottoni unti ed immancabile calzatura stile campesino boliviano, rappresento forse l’anello mancante nella fanta-teoria della migrazione del popolo vichingo verso gli altopiani andini del Sud America.
Ultima perla prima dell’addio alla famiglia, la speranzosa domanda di Duccio, che con l’utopica fiducia dei quattro anni mi chiede: “Babbo, vinci?”. Eccomi cosí a spiegare i valori dello sport come partecipazione e sforzo nel dare il meglio di sé specificando, qui probabilmente il mio errore, come mentre i primi saranno al traguardo già il pomeriggio di sabato, babbo arriverà, se tutto andrà bene, non prima di domenica pomeriggio. Fatti due conti Marco, con il cinico realismo dei quasi sette anni, allarga le braccia e sconsolato proferisce tranchant “Come sei lento, babbo!”.
Soddisfatto della prova logica di paternità (le querce non fanno limoni ed i lupi non cacano agnelli), mi avvio decoubertinianamente alla partenza. Manca circa un quarto d’ora e sono tra gli ultimi ad arrivare, cosí l’organizzazione mi guida attraverso vicoli e stradine in un piazzale arroventato dal sole (la temperatura é superiore ai 30 gradi) a circa 300m dalla linea, assiepato da una moltitudine fremente; deciso a non prendere la cotta prima ancora di partire, me ne torno sui miei passi fino a dei giardinetti ombrosi che un vicolino mette in comunicazione con il suddetto piazzale. Mi stendo all’ombra insieme ad un’altra decina di concorrenti che evidentemente hanno avuto la mia stessa idea e ci godiamo, attraverso il maxischermo che riusciamo ad intravedere, le fasi della partenza: incredibilmente riesco a non commuovermi alle note della “Conquest of Paradise” di Vangelis, suonata a tutto volume e che si sposa perfettamente con queste migliaia di Cristoforo Colombo che stanno partendo alla ventura; alla fine del countdown, alle 18 precise, rimango sorpreso nel vedere la velocità con cui i top runners partono, che stimo ben superiore a quella che il sottoscritto riesce a raggiungere in via Campansi alla partenza della Traversata ..... finalmente l’onda umana accenna a muoversi anche nella piazza e cosí mi alzo, metto lo zaino in spalla e comincio l’avventura.
Percorso il vicolino ed immessomi nella fiumana che ancora stenta a partire, mi trovo immerso in uno spettacolo che non avevo previsto tale nella sua portata: percorriamo, inevitabilmente ancora camminando, tutto il corso di Chamonix tra due ali di folla che aldilà delle transenne ci incita a pieni polmoni, invitandoci a battere il cinque e chiamandoci distintamente per il nome che vedono scritto sul pettorale. Alzo lo sguardo e non c’é una finestra, dal primo all’ultimo piano dei palazzi, dove le persone assiepate ai davanzali facciano altrettanto: sento gli occhi lucidi e mi tranquillizzo vedendo che praticamente tutti intorno a me se li stanno stropicciando.
Dopo quindici minuti esatti dalla partenza incomincio a correre proprio dove, alla fine del corso, mia moglie mi chiama e ci scambiamo un ultimo fugace saluto. Siamo fuori dal paese, le transenne non ci sono piú, ma per almeno un altro Km corriamo tra due ali di folla che continua ad incitarci come dei gladiatori, fino a quando imbocchiamo un’ampia strada sterrata, che costeggia sul lato destro, nel senso della corrente, il torrente Arve. Fortunatamente non troviamo l’arena con i leoni, ma soltanto una palestra di roccia da cui persino gli alpinisti ci salutano da sopra le nostre teste. Ho imparato a memoria l’altimetria della prima metà di gara e so che i primi 10Km sono praticamente pianeggianti, fatto insolito in un trail ed alquanto pericoloso per chi come me deve pensare fondamentalmente a salvare la gamba: prendo un passo che non mi fa avvertire la benché minima fatica e cammino ad ogni pendenza positiva, anche se minima. Non avendo portato il GPS, sia perché non reggerebbe la carica sia perché non voglio esser condizionato dai tempi, ma fidarmi soltanto delle mie gambe che ormai ben conosco, é difficile stabilire quale velocità tenga; ipotizzo comunque un po’ meno di 7min a Km. Passa cosí un’ora abbondante lungo un percorso immerso in una piacevole ombra con facili saliscendi ed onestamente un po’ noioso, ma che comunque permette alla moltitudine di defluire tranquillamente senza intoppi, fino a quando attraversiamo il torrente e la statale entrando nel paese di Les Houches. Altro bagno di folla prima e dopo il ristoro idrico e finalmente inizia il trail: quello vero!
É tempo di tirare fuori dallo zaino i bastoncini nuovi di pacca (ricorderete forse come i vecchi li abbia malamente abbandonati alla Trans d’Havet): la salita, che in 5km da 1000 ci porterà a 1800 metri, parte per uno stradone che, correndo a lato delle piste da sci, tende a diventare sempre piú ripido. É comunque abbordabile e le sensazioni, ci mancherebbe altro, sono buone: mi colloco tranquillo all’interno del serpentone che sale tra prati e baite sempre popolate di persone che incitano a piú non posso con urla, campanacci, “Bravó Mishel” e “Bon Courage”, evitando i dispendiosi sorpassi della fila che a volte nei restringimenti rimane imbottigliata, anche se solo per pochi secondi. A parte i pochi che già faticosamente arrancano, il clima intorno a me é assai gioioso con molti che chiacchierano tra di loro entusiasti in francese, italiano, spagnolo, inglese e non meglio identificati idiomi; come al solito me ne salgo taciturno per i cavoli miei, sia per l’innata burberità sia perché non avendo ancora riscontri cronometrici dei passaggi ai cancelli non mi sento affatto tranquillo: va bene salvare la gamba, ma non vorrei esser estromesso praticamente da subito.
Quando arrivo in cima al monte, sul Plan di Voza, intorno alle 20 mi tranquillizzo un po’: ho ancora quasi due ore per giungere al primo cancello di Saint Gervais, a circa 7Km e 1000m piú in basso. Percorrendo quindi una sorta di altipiano ho il tempo di voltarmi ed ammirare al tramonto la valle di Chamonix con i ghiacciai Des Bossons e Taconnaz che arrivano quasi al paese, dominati dall’imperiosa Aiguille du Midi; sulla mia sinistra il grandioso ghiacciaio di Bionnassay che sembra scendere direttamente dalla vetta del Bianco e, finalmente valicato, davanti a me si apre la bassa valle dell’Arve. Il primo tratto di discesa é lungo una pista da sci, con fondo erboso ma assai ripido: mentre alcuni già si fermano per indossare la frontale, lascio andare libere le gambe e filo giú come una saetta, almeno se paragonato all’ultimo gruppo dei trailers piú chiattoni di cui faccio parte. Improvvisamente entriamo nel bosco e la situazione si fa piú scura; ci vedo comunque ancora abbastanza bene e proseguo, mantenendomi peró in fila senza fare piú sorpassi: le tibie cominciano a bruciare e ho già visto alcuni colleghi snodellati stesi sofferenti a terra. Mentre proseguiamo abbastanza lentamente si fa praticamente buio e tutti accendono la frontale o, chi ancora non la indossa, si ferma per prenderla dallo zaino .... eccetto il sottoscritto che, per passare il tempo, si inventa un nuovo gioco: corri con la luce degli altri. Siamo cosí fitti da avere sempre qualcuno dietro o davanti che mi illumina abbastanza per vedere dove metto i piedi e cosí, puerilmente galvanizzato, accelero nuovamente e mi trastullo nel saltare dal cono di luce di chi mi segue a quello di colui che mi precede e cosí via, fin quando il sentiero diventa single track piuttosto ostico e conduce tra le prime case. A quel punto, sfruttando l’illuminazione pubblica, giungo al ristoro con tre quarti d’ora di vantaggio sul cancello orario: non male, considerando i 15 minuti persi in partenza.
La piazza principale davanti alla chiesa di Saint Gervais é un brulicare di trailers indaffarati a rifocillarsi e centinaia di festanti spettatori aldilà delle barriere che delimitano l’area; per sveltire le operazioni le bevande sono già pronte sui tavoli in bicchieri di plastica e ci sono molti punti per accedere ai vari solidi: personalmente, sarà cosí per tutto il resto della gara, mi ingozzo dell’amata Coca Cola, mangio l’ottimo formaggio locale con pezzi di salame e pane tostato tipo craker, un po’ di frutta secca e me ne parto con una banana. Appena uscito dal ristoro trovo anche tutta la famiglia ad aspettarmi (l’appartamento affittato é lí a duecento metri); mi fermo volentieri un paio di minuti a salutare moglie e ragazzi che sembrano, se non fieri, per lo meno contenti di vedermi: fortunatamente Marco evita di dirmi in quale posizione mi trovi .... nonostante le buone doti matematiche avrà probabilmente perso il conto!
Mi incammino quindi lungo una sorta di sentiero ciclabile, risalendo la riva sinistra del torrente Bon Nant. É forse il tratto di maggiore sofferenza che incontro in tutta la gara. Sono circa 10Km per andare dagli 800m di Saint Gervais ai 1100 di Les Contamines, tutti da percorrere nel fondovalle e quindi ipoteticamente agevoli. In realtà il sentiero, che a volte diventa vera e propria strada carrabile, é costellato di numerosi strappi, brevi ma piuttosto ripidi, discesine e lunghi tratti in leggerissima salita tra i campi, paralleli e non lontani dalla strada asfaltata. Quasi tutti li corricchiano, ma ho il terrore di cuocermi e mi impongo di camminarli, mentre il tempo passa inesorabile. Guardarsi intorno non aiuta: é buio pesto e nonostante la luna piena, passando davanti agli sbocchi delle valli di Bionnassay e successivamente di Miage, non distinguo i ghiacciai che so sovrastarle; vedo solo un lungo filare di luci in movimento davanti a me ed ogni agglomerato di case dove spero sia il ristoro, una volta raggiunto, si rivela non essere tale. Superati alcuni concorrenti fermi a vomitare sul ciglio della strada lo sconforto é quasi totale e praticamente ho lo sguardo fisso sull’orologio. Alle undici mi appare una località che sembra esser la piú grande sinora incontrata: saranno un paio di Km di distanza ed un centinaio di metri di dislivello positivo. Accelero leggermente il passo e, cominciato ad udire il tipico brusio di un luogo affollato, senza rendermene conto supero di slancio l’ultimo strappo ed arrivo al secondo cancello alle 23:20 con soli 40 minuti sul limite orario: considerati 10 minuti per mangiare, bere e rifornirsi, ho perso circa mezz’ora rispetto al passaggio precedente e sono stato piú lento del passo minimo consentito, pur non lesinando impegno.
Adesso, dopo un tratto di 3Km praticamentre pianeggiante tra ameni laghetti e campeggi, so che comincia la salita vera, 1400m di dislivello in circa 8Km con ristoro e barriera oraria a circa metà arrampicata. Percorrendo il largo e dritto stradone con tanto di stazioni della via crucis che porta alla barocca Notre Dame de la Gorge, comincio ad udire sempre piú forte musica rock sparata in aria insieme ad improbabili fasci di luci violacee, che stridono alquanto con la monacale quiete di cui immagino normalmente pervaso il sacro luogo; fatto sta che proprio in prossimità della chiesetta, dopo una secca svolta a sinistra, mi trovo in mezzo a questo bislacco rave party di tifosi; é mezzanotte passata, siamo in cima ad una vallata alpina praticamente in mezzo al nulla, i primi sono passati da almeno 3 ore, rimangono solo due-trecento ritardatari e ci sono ancora almeno un centinaio di persone a farci festa: semplicemente incredibile ... “outstanding”, come sento dire ad un americano che ho a fianco.
All’inizio rimango un po’inebetito, ma evidentemente tutto ció mi dà la carica giusta perché, superato il Bon Nant su un ponticello, alzo lo sguardo ed osservo la strada che, facendo un tuffo di duemila anni addietro, diventa l’originale carraia romana che sale ripida scavata nella roccia: mi sento finalmente di buon umore e comincio pimpante a racchettare in salita, conscio che a breve mi renderó conto se questo benedetto trail sia alla mia portata o meno. Dopo un po’ il sentiero spiana in un’ampia conca, si supera il ponte romano della Téna, il bosco lascia spazio ai pascoli alpini e si apre davanti ai miei occhi il grandioso spettacolo di un’ininterrotta fila di luci che si arrampicano per chilometri sul Col di Bonhomme, dominato dalle vette delle Aiguilles de la Pennaz rischiarate dalla luna. A mezza costa, in un tratto che sembra abbastanza ripido, si distingue nitido un rifugio illuminato a giorno, che suppongo essere La Balme dove, a 1730m, é posto il ristoro successivo. Discorrendo amabilmente niente popó di meno che con l’unico, non faccio fatica a crederlo, rappresentante iraniano in gruppo, la strada passa veloce e, benché mi stacchi di qualche metro nelle ultime rampe, giungo fresco e rilassato al rifugio, con un’oretta di vantaggio sul cancello: buon segno.
Mi rifocillo gustando volentieri quasi tutte le pietanze a disposizione e, lasciando diversi concorrenti sdraiati nelle brandine a riposare, me ne riparto quasi subito per un sentiero single track che sale molto ripido tra le rocce per una buona mezz’ora, fino a spianare nuovamente in una zona piuttosto acquitrinosa con molti rivoli d’acqua da guadare, il Plan Jovet, al termine del quale si scorge ancora il treno luminoso inerpicarsi. Proprio nello scalare questo ulteriore gradino roccioso, ennesimo vagoncino dell’infinito convoglio umano, avverto un nauseabondo odore di carogna imputridita: mi sono evidentemente accodato al carro bestiame nelle sembianze di teutonico trailer dai lunghi capelli biondi untuosamente avviluppati che, sempre secondo la fanta-teoria della migrazione vichinga in Sud America, presumo essere un estremista devoto della madre terra Pachamama che da anni non usa prodotti detergenti. Per dare ossigeno ai polmoni lo supero con un faticoso scatto, ma nel successivo Plan des Dames, mentre io faccio attenzione a non bagnarmi i piedi nei numerosi rivoli d’acqua che lo attraversano, questi non se ne perita ed incurante del possibile danno ambientale tira dritto immergendovi le contaminanti estremità e sopravanzandomi nuovamente, cosicché nello strappo finale verso il valico mi sembra nuovamente di stare in fila dietro al camion della Siena Ambiente che svuota il cassonetto dell’organico.
Raggiunta finalmente la sella del Col di Bonhomme a 2300m, davanti scende il Vallon della Jittaz, ma noi dobbiamo continuare a salire sulla sinistra per un traverso sottocosta aspro e roccioso. Tira un vento abbastanza fresco e rifletto se non sia meglio indossare la giacca, ma vedendo che l’olezzante collega si ferma per fare lo stesso non esito un momento a continuare a maniche corte ed inalare finalmente la pura aria montana. Questa vuol peró essere una notte dai sapori decisamente forti e cosí, arrancando tra pietre smosse ed enormi massi da aggirare, mi trovo dietro ad un petomane francese, che chiosa ogni sua roboante emissione con un “pardon”. A questo punto, allegramente esasperato, decido di combattere la mia sporca guerra mollando venefiche loffe alla fontina e mascherandole con i rombi di colui che mi precede fino a che, dopo alcuni scambi di artiglieria ed armi non convenzionali, da dietro si sente pronunciare con esilarante accento emiliano “altri due pardon e ti devi cambiare le mutande!”.
Passa in tal modo questo spettacolare ma ostico tratto e giungo al Col de la Croix du Bonhomme, quasi 2500m di altitudine, dove si esce dal dipartimento dell’Haute Savoie per entrare in quello della Savoie e si comincia finalmente a scendere. Sono ormai diverse ore che non incontro segni di civiltà e anche il vallone della Raja che declina prima ripido e poi si allarga in pascoli meno pendenti non ne dà, salvo un paio di fari che scorgo su una strada un migliaio di metri piú in basso. Il sentiero, nonostante la notte, é agevole ed alterno una blanda corsetta a tratti camminati per far riposare un po’ le gambe; l’ultimo tratto é nuovamente ripido, ma attraverso un comodo sentiero che scende a larghi tornanti arrivo a Les Chapieux, due case una di fronte all’altra a 1550m di altitudine, avendo percorso 50Km in 10 ore e con 75 minuti di vantaggio sul cancello orario. Dopo un accurato controllo a campione del materiale obbligatorio da parte dei volontari, accedo all’area ristoro dove mi rilasso per circa venti minuti prima di riprendere il cammino.
Una volta usciti imbocco la Vallée des Glaciers per la strada asfaltata che risale l’omonimo torrente sulla riva destra. Lo spettacolo che si para davanti ai miei occhi é unico: il luminoso treno umano si allunga senza soluzione di continuità per i successivi 10Km fino ad inerpicarsi a larghe volute sul col de la Seigne, come un gigantesco festone argentato sull’albero di Natale. Spengo la frontale (sull’asfalto non ne ho bisogno) e cammino di buon passo i 4Km che salgono costanti fino a 1800m, superando diversi concorrenti distesi a riposare sul ciglio della strada. Qui la valle si allarga in un’ampia conca e diventa perfettamente pianeggiante per il successivo Km, quando superate alcune baite la strada diviene sterrata, supera il torrente con un ponte e comincia a salire fino ad un vecchio cascinale trasformato in rifugio, per divenire infine single track che, attraverso un’infinita serie di tornanti non troppo ripidi e dal fondo agevole, porta verso il valico a 2500m.
Giuntovi mi godo la magnifica alba entrando in Italia: alle spalle mi lascio i ghiacciai che scendono tra l’Aiguille des Glaciers e le Aguilles de Trélatête, mentre davanti, in primo piano, si stagliano le Pyramides Calcaires che dominano prorompenti il placido Lac Combal, dove so essere posto il successivo ristoro. Vistolo abbastanza lontano e ricordandomi di un’ulteriore salita da affrontare, raggiunta dopo pochi minuti di discesa della Val Veny una vecchia casermetta trasformata in museo dove é stato improvvisato un ristoro idrico, mi fermo volentieri a riposare ed identificare con l’aiuto di una gigantografia le innumerevoli vette ed i ghiacciai che la sconfinata vista abbraccia in questa tersa mattina.
Vedo anche la successiva salita che mi attende e, almeno a giudicare dal modo di procedere delle persone che la stanno affrontando, non promette nulla di buono. In effetti, dopo un breve tratto in discesa e superato prima un agevole guado e poi un ponticello, invece di proseguire per la comoda strada lungo la valle, pieghiamo a sinistra per un sentiero a malapena tracciato, non fosse per le bandierine della corsa. Dopo alcuni strappi inframmezzati da brevissimi pianori acquitrinosi, entriamo in una vera e propria pietraia morenica che, salendo sotto le Pyramides Calcaires, porta all’omonimo colle a 2563m, il punto piú elevato del percorso. Purtroppo non posso godere troppo della splendida vista del ghiacciaio de la Lex Blanche, perché la discesa nell’omonimo vallone fino al rifugio Elisabetta é ancor piú insidiosa della salita: una pietraia a tratti ripida ed instabile dove tendo a percorrere la traiettoria che reputo ottimale, piuttosto che seguire fedelmente il percorso tracciato. Superato il rifugio rientriamo nella vallata principale e, dopo un ultimo dislivello in discesa, raggiungo il ristoro allestito con dei tendoni sulla sponda del lac Combal, di poco inferiore ai 2000m, con ancora 45 minuti di vantaggio sulla barriera oraria.
Comincio ad avvertire la stanchezza, ma molti di coloro che mi sono intorno hanno un aspetto ben peggiore, almeno spero, del mio. Non é comunque il momento di avere tentennamenti sicuro che almeno a Courmayeur, prossimo cancello e giro di boa della gara, ci arriveró .... poi sarà ció che Dio vorrà, anche perché piuttosto ignaro di cosa mi attenda nella seconda parte del percorso. Costeggiata quindi la sponda destra del lago, lasciamo la val Veny che condurrebbe comodamente al paese per inerpicarci sul costone di destra fino all’Arête du Mont Favre, nuovamente a 2400m di quota. La fatica della salita é comunque compensata dal panorama sempre piú ampio che si apre sul lato opposto della valle, fino a comprendere tutto il lato italiano del massiccio del Bianco con in primo piano i magnifici ghiacciai del Miage e della Brenva. La prima parte della successiva discesa, tra pascoli e tratti boscosi, é facile fino ai 2000m del Plan Checrouit, centro nevralgico degli impianti sciistici di Courmayeur e adesso affollato dai numerosi escursionisti in un assolato sabato di fine Agosto. Al ristoro riprendo per ben due volte delle orecchiette al sugo che i Km percorsi rendono gustosissime al mio palato. Come sempre rimesso di buon umore dal buon cibo, tiro fuori il berretto e me lo rovescio sulla testa pieno d’acqua visto che la temperatura, alle undici del mattino, si é fatta piuttosto calda. I mille metri di discesa in circa 4km su di un sentiero ripido, spesso a scaloni, che corre sotto la funivia in un clima che si fa sempre piú rovente non riescono a scoraggiarmi, vedendo avvicinarsi sempre piú le case di Courmayeur di cui mi trovo finalmente a percorrere i caratterisitici vicoli con le case in pietra: giungo al ristoro allestito nel palazzetto proprio quando le campane annunciano il mezzogiorno.
Prendo la sacca con il cambio (sono stupito nel constatare come ne siano rimaste ancora alcune centinaia da ritirare) ed entro nell’enorme struttura, affollata di trailers e persone che li assitono. L’afa opprimente ed i numerosi atleti stesi a terra alcuni con gli occhi chiusi, altri a curarsi le vesciche, altri ancora con borse di ghiaccio sulla testa ed addirittura un paio portati via in barella, lo rendono piú simile ad un lazzeretto che ad un punto di ristoro. Mi nascondo ai monatti in un andito riparato da alcuni tendoni, togliendo scarpe e calzini per verificare lo stato di salute delle mie bitorzolute estremità: fortunatamente hanno retto tutte le fasciature delle dita, salvo quella intorno al mignolino destro, che é infatti l’unico un po’ ammaccato. Rifaccio con zelo le incerottature che si stanno staccando, spalmo senza parsimonia la Pasta di Fissan sui piedi, indosso nuovi calzini e mi rimetto le stesse scarpe: per quanto già malconce prima della partenza ed ora praticamente distrutte non ho il coraggio di indossarne un nuovo paio che ho nella sacca, seppur rodate anch’esse. Cambio anche la maglietta e riconsegno la sacca che verrà riportata a Chamonix. Mentre lotto per arrivare al cibo (sembra che tutti, trailers, assistenti amici e tifosi si siano dati appuntamento in questo palazzetto), una lugubre voce che associo istantaneamente a quelle tedesche dei campi di concentramento che si sentono nei film di guerra, annuncia dall’impianto fonico che mancano trenta minuti alla chiusura del cancello in uscita.
Afferrati a piene mani formaggio e salame, mi catapulto fuori da quel forno crematorio che ormai non tollero piú e provo quasi sollievo sotto il sole cocente di mezzogiorno. Alcune centinaia di metri e faccio il piacevole incontro con Massimo Zangheri, trailer dei Malandrini in vacanza, già intravisto prima del ristoro, che mi esorta a non mollare, sottolinenando come sarà assai improbabile ritrovare in futuro condizioni climatiche cosí favorevoli; non che pensassi minimamente a ritirarmi, ma questa considerazione mi dà ulteriore convinzione, anche se gravata di onerosa responsabilità: ora o mai piú!
Traversata la Dora, risalgo tra le vie della moderna Courmayeur fino a piazza Abbé Henry, dove si sono raccolti diversi spettatori che ci incitano con tanto di speaker che presenzia. Lasciato finalmente il paese lungo una ripida strada asfaltata che si inoltra nel Vallon du Sapin, ad ogni fontana che trovo, praticamente ogni cento metri, riempio il berretto di acqua fresca e me lo rovescio in testa, sperando di raffreddarmi a sufficienza per la salita al rifugio Bertone, 800m di vdislivello in 4km di cui 600m concentrati negli ultimi 2Km. Lasciata infatti la strada che intanto é divenuta sterrata, il sentiero é da subito ripido e la vegetazione non riesce a proteggere dal caldo asfissiante, offrendo un po’ di refrigerio solo nei tratti con abetaie e larici di alto fusto. Accorcio decisamente il passo (risulterà essere il secondo tratto piú lento di tutta la gara, inferiore ai tre chilometri orari), ma riesco a proseguire costante senza soffrire eccessivamente e contemporaneamente sopravanzando diversi concorrenti che si fermano sfiniti ai bordi del tratturo. Raggiungo il ristoro del Bertone ed osservo soddisfatto Courmayeur in fondo alla valle mentre svuoto due borracce di Coca Cola: tutto sommato non mi sento piú stanco di otto-dieci ore prima e finalmente dentro di me un incauto ma trascinante ottimismo sta prevalendo sull’elegiaco scetticismo della notte.
Mi lancio nel continuo saliscendi che corre a mezza costa parallelo alla val Ferret, lungo balcone che la domina dai 2000m di quota ed offre viste meravigliose della parte meridionale del massiccio del Bianco, dal Col de la Seigne valicato all’alba fino al Grand col Ferret, su cui presumibimente transiteró al tramonto, passando davanti a tutte le Grandes Jurasses da cui mastosi scendono numerosi ghiacciai. Con un ultimo strappo raggiungo il rifugio Bonatti, da cui proseguiamo ancora a quota piú o meno costante lungo il sentiero panoramico fino alle baite in rovina dell’Alpe Gioé, scendendo poi con ampi tornanti ad Arnouva, ultimo avamposto della valle a 1700m, dove arrivo con un’ora abbondante di vantaggio sulla barriera oraria.
Ne approfitto per riposare un po’ steso sulla fresca erbetta e, una volta traversato il fiume, do l’attacco all’ultima grande vetta, il Gran Col Ferret che con i suoi 2537m costituisce il secondo punto piú alto di tutto il percorso. Il sentiero si presenta all’inizio ripidissimo arrampicandosi a stretti tornanti sullo scalino di una lingua morenica, addentrandosi in uno stretto canyon scavato dal torrente e poi uscendone ancora erto per dare respiro in una sorta di conca dove sorge il rifugio Elena, che noi ci lasciamo sulla sinistra: la civiltà della Val Ferret é ormai in basso alle nostre spalle, a lato, oltre il rifugio, siamo a pari quota con la spettacolare lingua gelata del Pré de Bar e avanti, alzando la testa, il lungo convoglio di anime pellegrine scompare nelle infinite altezze. Ancora una volta con la mia andatura lenta ma inesorabile (sarà il tratto con la media piú bassa di tutto il trail, 25 minuti a Km) arrivo senza soste a godermi lo spettacolare tramonto al confine tra Italia e Svizzera: voltandomi posso ripercorre in un attimo tutto il tragitto fatto dal sorgere, Col de la Seigne, al calare del sole; guardando avanti mi aspetta la dolce discesa della Val Ferret svizzera, nel Canton Vallese.
Grazie alla facilità del sentiero dal fondo morbido e non troppo sassoso che attraversa gli sterminati pascoli ed alla sua pendenza non troppo pronunciata, é la prima volta in vita mia che superati i 100Km di gara riesco a correre per tratti di alcune decine di minuti. Supero di slancio l’alpeggio di La Peule e piego decisamente a sinistra, in direzione nord, sotto lo sguardo bonariamente comprensivo delle mucche, il cui incessante scampanio costituisce un perfetto sottofondo musicale: sono infatti pervaso di una bucolica gioia, mi sento un leopardiano donzello od un pascoliano Valentino, piuttosto che un arrembante Rocky Balboa.
Dopo un lungo tratto panoramico percorso in quota, a “spiezzarmi in due” ci pensa peró la ripida discesa che conduce al fondo valle sull’argine della Drance de Ferret, che mi ostino a correre nonostante le gambe brucino ed i piedi comincino a far male; sono cosí costretto, senza rincrescermene troppo, a camminare quasi interamente sia il lungo stradone sterrato che lo costeggia sulla riva sinistra sia il Km di asfalto che, una volta attraversatolo, conduce al ristoro della Fouly (1500m di quota), dove giungo poco prima delle 21, con oltre un’ora e mezza di vantaggio sul cancello orario.
Ho forte dolore ai piedi e appena seduto mi tolgo le scarpe per massaggiarli, provando un indicibile sollievo; prendo anche un antidolorifico che spero faccia effetto per le prossime ore. Nonostante la situazione sia incoraggiante ed ormai resti da percorrere soltanto un normale ultratrail di 60Km, avverto distintamente che il buonumore che mi aveva accompagnato da Courmayeur in poi sta svanendo, offuscato dall’oscurità che é scesa d’intorno: sono già passate 27 ore di gara, non ho mai dormito e un’altra intera notte mi attende. Verificato che al prossimo ristoro sarà presente anche una zona attrezzata con brande, decido di provare a raggiungerla e riparto senza distendermi.
Il percorso é ancora a favore lungo il fondovalle e, quasi totalmente scomparso il mal di piedi, riesco ancora a corricchiare alcuni tratti; mi sento peró sempre piú estraniato ed incapace di concentrarmi sul tracciato o qualsiasi altro pensiero, fin quando gli occhi non ne vogliono piú sentire di rimaner aperti. Dopo alcuni passaggi tecnici per superare dei canaloni che mi ridanno momentaneamente concentrazione, raggiungo un tratto alberato dove l’erba non é troppo umida e, senza neppure indossare la giacca, mi stendo supino sul ciglio spengendo la frontale e chiudendo gli occhi. In realtà non riesco a dormire nel vero senso della parola (ogni volta che controllo l’orologio sono passati pochi minuti dalla volta precedente), comunque mi rimetto in piedi dopo un quarto d’ora e, se non proprio riposato, sento che almeno gli attacchi di sonno sono spariti. Mi trovo cosí a percorrere un dedalo di strade asfaltate secondarie che uniscono villette e chalet sparpagliati ovunque; dopo un inaspettato ristoro idrico costituito da una botte piena d’acqua in mezzo ad un quadrivio, attraversata la strada principale le abitazioni diventano piú fitte e nel giardino di una di esse dei magnifici supporters hanno approntato un graditissimo ristoro a base di caffé caldo che, sorbito con gustosa lentezza, mi fa rinascere a nuova vita.
Superati altri caratteristici villaggetti con case in legno e pietra, la discesa termina ad Issert, poco superiore ai 1000m di altitudine, dove mi siedo su una panchina e controvoglia mi tolgo lo zaino per sostituire la frontale che si sta scaricando con l’altra di riserva ma, resomi conto dopo un centinaio di metri che questa fa ancor meno luce, sono costretto a metter nuovamente sottosopra lo zaino appena rifatto per cercare le pile di riserva. Ripartito per affrontare i 400m di dislivello che ci separano dal ristoro di Champex Lac, il sentiero che sale attraverso un bosco di conifere é rischiarato a giorno, non so quanto per merito delle batterie nuove e quanto grazie all’autoluminescenza del furente sottoscritto, le cui maledizioni, una volta esaurita l’agiografia da calendario, sono arrivate fino ad Alessandro Volta.
Nonostante tutto ho mantenuto un’ora e mezza di vantaggio sul cancello e cosí, come preventivato, libero i piedi nuovamente sofferenti da scarpe e calzini, stendendomi beatamente su uno dei pochi materassini rimasti liberi, avviluppato in una calda coperta di lana. Anche questa volta, pur non dormendo, avverto ad ogni minuto che passa i benefici effetti del riposo cosicché, dopo che ne sono trascorsi una ventina, procedo con il nuovo bendaggio dei mignolini (questa volta entrambi un po’ pigiati), unzione dei piedi e cambio calzini. Bevuto e mangiato senza badare a spese, quando riparto poco prima delle due di notte mi sono rimasti ancora 40 minuti di margine.
Costeggio per alcune centinaia di metri il lago ed esco dall’abitato per una leggera salita, lasciando definitivamente alle spalle la Val Ferret ed entrando nella piccola Val d’Arpette, attraverso un bosco che degrada dolcemente verso Pian de l’Au. Adesso mi aspetta il primo dei tre denti finali, circa 7-800m di dislivello ciascuno; visto sull’altimetria il primo sembra essere forse il piú abbordabile e mi sento confortato dal commento sulla relativa facilità del percorso che il giorno prima della partenza mi aveva fatto Chiara Lorenzini, giunta al traguardo della versione corta del trail che ricalca gli ultimi 50Km dell’UTMB .... ahimé non fedelmente come pensavo! Salendo leggermente su un traverso lungo il pendio entriamo in una zona sempre piú selvaggia, la piccola valle disabitata formata dal Durnand de la Jure, di cui guadiamo, attraverso passaggi piuttosto tecnici, i numerosi ruscelli costitutivi. A questo punto pieghiamo a sinistra ed attraverso un sentiero, se tale si puó chiamare, risaliamo praticamente a dritto il costone della montagna, sfrascando tra una fitta vegetazione ed arrampicandosi vicino alla verticale tra scalini di roccia. Non so dire quanto questa vera e propria scalata sia durata, ma so per certo che, se ero partito ancora un po’ intontito dal sonno, mi ritrovo in cima ad un pianoro a pascolo con gli occhi sbarrati per lo shock. Dopo circa 2 Km pianeggianti su un lungo traverso tracciato dalle mucche al pascolo, ci ricongiungiamo con il percorso dell’OCC, il trail corto, e continuando ad aggirare il monte de la Bovine raggiungiamo in breve il Col du Portalo, da dove scendiamo prima verso lo chalet de la Giète (controllo orario) e successivamente per una ripida e lunga discesa tra i larici al Col de la Forclaz, il valico della strada asfaltata che collega Martigny, nell’alta valle del Rodano, con la Francia verso Vallorcine e Chamonix. Dopo un tratto pianeggiante affacciato sulla valle del Trient, scendiamo ancora verso il fondovalle ed attraversata la statale con un cavalcavia, ci buttiamo a capofitto verso l’omonimo paese di cui si vedono ormai vicine le case. Si sta facendo giorno, mancano solo una trentina di Km alla fine e quando pregusto già un tonificante riposo al ristoro ormai prossimo, ecco che avviene la potenziale tragedia: non so dire se per una pietra smossa od una radice la caviglia destra cede ed avverto la dolorosa fitta della piú classica delle storte; evito di cadere facendo un paio di passi a gamba zoppa sul sinistro e, seppur preda di terrorizzata apprensione, decido istantaneamente di continuare a corricchiare appoggiando nuovamente il destro per verificare l’entità dell’infortunio. Fortunatamente il dolore ad ogni passo diminuisce, fino a scomparire del tutto quando faccio ingresso al ristoro di Trient a 1300m di quota, poco dopo le 6 del mattino e con quasi 2 ore di vantaggio sulla barriera oraria.
Prima di rifocillarmi passo diversi minuti a massaggiarmi i piedi, lenendo con successo il dolore e riparto poco prima delle 7. Attraversato il torrente comincia da subito la penultima salita, che scala il fianco della montagna con lunghe e ripide diagonali. Anche questa volta riesco a tenere un passo apparentemente lento all’inizio ma che, rimanendo costante per piú di un’ora, farà da traino ad un gruppetto di ragazzi francesi che in cima mi ringrazieranno. Nonostante sia già pieno giorno, la cronica mancanza di sonno si manifesta con un blando principio di allucinazioni, che mi fanno apparire ogni 50-100 metri i tronchi degli alberi lungo il sentiero nel bosco come degli chalet con tanto di veranda, rimanendo ogni volta stupito, quasi contrariato, nel verificare la loro effettiva inesistenza quando li raggiungo. Tento di vedere il lato positivo della faccenda e mi sento rincuorato dal fatto di non essere inseguito né da panda giganti né da leoni bianchi. Superato il Pas des Moutons e giunto nell’ampia zona a pascolo che sale assai dolcemente fino all’alpeggio di Catogne a 2000m di quota (controllo orario) i campanacci delle mucche ed il sole che ormai picchia diretto in testa dissolvono questo nebuloso stato e mi fanno tornare definitivamente cosciente. Si scende per un breve tratto costeggiando il Nant de Catogne e, percorso un pianoro con l’alpeggio in rovina della Grand Jeur, rientriamo in Francia passando sotto una delle cabinovie del comprensorio sciistico de la Balme. Attraverso ripide discese in sentieri immersi nel bosco che si intersecano con stradoni piú larghi e percorrendo le ultime centinaia di metri lungo una pista da sci, giungo a Vallorcine, 1250m di quota, alle 10 del mattino: 150Km sono alle spalle, ne mancano 20 al traguardo ed ho ancora un’ora ed un quarto di margine.
Ne sfrutto mezz’ora per l’ormai indispensabile massaggio ai piedi ed il rituale rifocillamento, condito dall’assunzione di un secondo antidolorifico a piú di otto ore di distanza dal precedente, con lo scopo di rendermi piú piacevoli possibili queste ultime ore. É un’assolata domenica e fuori dall’area ristoro si é radunata una discreta folla di accompagnatori o semplici curiosi che non cessano di incoraggiare chiunque. Anche noi trailer superstiti, seppur stravolti dalla fatica, siamo abbastanza euforici e sotto il tendone c’é una vivace animazione che non vedevo dai rifornimenti della prima notte. Afferro i bastoncini e riprendo il cammino lungo una striscia di prato falciato che corre tra la ferrovia ed il torrente. Dopo alcune centinaia di metri ho la sensazione che qualcosa sia diverso e finalmente, con isterico disappunto, mi rendo conto come i bastoncini che ho in mano non siano i miei. Faccio per tornare indietro, quando mi viene in mente che magari i miei sono già stati presi da qualcun altro; tentenno per un minuto o due e, deciso a continuare comunque visto che anche questi non sono cosí male, mi sento chiamare “Ehi amigo!”: un allegro spagnolo mi viene incontro tutto pimpante dicendomi che quei bastoncini sono i suoi e mi fa vedere il segno di riconoscimento che vi ha apposto, spiegandomi come gli sia capitato altre volte di averli scambiati. Il fatto é che lui pensa di aver preso i miei, ma in realtà quelli che mi dà sono assai piú corti e mal ridotti; vedendo la mia faccia sconsolata capisce immediatamente che sono caduto dalla padella nella brace e gli spiego come i miei, regolati in altezza piú o meno come i suoi, hanno un particolare e vistoso tipo di bloccaggio, al che lui dice di averli visti ad un polacco che sta arrivando proprio in quel momento: quando entrambi lo accerchiamo chiedendogli se siano effetivamente i suoi, questi se li stringe al petto e risponde piuttosto stizzito “Of course!”. Sfiorata la crisi internazionale, ci salutiamo tutti e tre amichevolmente e proseguiamo per la nostra strada. Non riesco a capacitarmi di come non riesca a terminare un trail con i bastoncini e, per quanto mi sforzi di prenderla a ridere, sono assalito da un cupo rancore nei confronti di un ipotetico nanerottolo od una minuta signora che adesso si trova a racchettare con due pertiche, senza peraltro prendere in considerazione che possa esser stato un mio errore a generare questa vorticosa escalation. Ho l’impressione di stare piuttosto bene, senza particolari dolori e con sufficiente forza residua, eppure nei quattro Km di leggera salita su un comodissimo stradone dal fondo erboso non raggiungo nessuno ed anzi vengo sorpassato da molti trailer, non perché corrano, ma semplicemente perché camminano piú velocemente. Mentre continuo a rimuginare sulle racchette smarrite, mi trovo in uno stato di incosciente svogliatezza, recettore passivamente indispettito degli stimoli esterni: in una parola, come solo l’idioma natio sa magnificamente descrivere, sono sfavato!
Raggiunto il Col des Montets, dove la statale da Vallorcine comincia a scendere nella valle dell’Arve verso Argentière, il percorso dell’UTMB compie un’altra ferale deviazione rispetto al tracciato del trail corto: attraversato l’asfalto mi trovo davanti ad una parete piú o meno verticale che scompare nell’empireo, brulicante a tutti i livelli di persone che é difficile intuire quale strada abbiano compiuto per trovarvisi. In due Km scarsi bisogna salire di 600 metri, per di piú sotto un torrido sole. Improvvisamente mi assale il dubbio, quasi il terrore direi, di non farcela a raggiungere in tempo il prossimo cancello, l’ultimo prima del traguardo. Alla faccia del fairplay, la paura si trasforma istantaneamente in rancoroso agonismo nei confronti di coloro che mi hanno sinora sorpassato e continuano a farlo all’attacco delle prime rampe; il piano é molto semplice: affrontare con passo lento ma inesorabile anche quest’ultima erta senza mai fermarsi! A caricarmi ulteriormente ci pensa un trailer di blu vestito che, per sopravanzarmi nel single track, mi spintona sino a farmi quasi inciampare; tiene un passo che é del tutto anacronistico rispetto alla posizione in cui navighiamo e in pochi minuti si trova già un paio di tornanti davanti a me. Identificato l’obiettivo, mi concentro sulla mia andatura, usando i bastoni mignon fino a piegarli nei tratti piú impervi ed approfittando per dare un sorso di acqua e sali ove la pendenza lo consenta. Via via che sfilo trailer fermi sul ciglio del sentiero, nei miei timpani risuonano sempre piú forti gli squilli di tromba della colonna sonora di Rocky, fin quando diventano assordanti alla ricomparsa all’orizzonte dello Speedy Gonzales blu, che interrompe adesso l’ascesa con soste brevi ma sempre piú frequenti. Mentre agli occhi dei molti escursionisti sul sentiero appaio probabilmente stravolto né piú né meno degli altri miei colleghi, io mi vedo invece con un feroce ghigno stampato in faccia all’ombra del cappello. Il sadico godimento diventa pura libidine nel momento in cui, raggiuntolo e spostatomi di lato per cominciare il sorpasso (con queste pendenze siamo nella tempistica di due TIR a pieno carico che si affiancano in Appennino), questi si produce in uno scatto suicida .... ne farà altri tre e prenderà persino nuovamente 30-40 metri di vantaggio in un tratto piú pianeggiante, che peró conduce agli ultimi micidiali gradoni granitici, dove il sentiero diventa addirittura attrezzato con scale in legno ed in ferro. Alla fine lo trovo fermo che si tiene la fronte con il gomito appoggiato ad un masso e, vedendomi passare, é puro artefice della nemesi di se stesso facendomi notare, fortuna vuole che sia pure italiano, come non si aspettasse questa salita cosí dura. Servito su un piatto d’argento, non gli risparmio il colpo di grazia e, abbracciando teatralmente la parete nord delle Grandes Jurasses ed il Mer de Glace che ne scende sontuoso, gli ribatto che con un panorama cosí non si sente neppure la fatica.
Trovando eccessivo gridare “Adriana ti amo!”, termino soddisfatto la parte piú dura e raggiungo un tratto pianeggiante dove addirittura riprendo a correre, saltando da uno all’altro di questi enormi lastroni di granito. Nuovamente un po’ di salita affrontata sempre in rimonta e raggiungo la Tête aux Vents, 2100m di quota e controllo orario. Ormai insensatamente galvanizzato, faccio poche centinaia di metri della discesa tecnica saltando da un sasso all’altro come un camoscio sciancato fin quando, probabilmente terminato l’effetto dell’antidolorifico, mi riprende un terribile mal di piedi che mi costringe a camminare lentamente e fare numerose soste, nonostante la pendenza favorevole di questo lungo traverso verso la stazione di arrivo della funivia della Flégère, ultimo ristoro idrico e cancello orario, dove giungo comunque con tre quarti d’ora di margine.
Prima ancora di bere, tolgo le scarpe e mi massaggio i piedi per almeno 20 minuti, prendendo controvoglia un altro antidolorifico per questi ultimi 8Km di discesa. Sotto il tendone l’afa rende l’aria irrespirabile, ma é l’unico posto dove sia presente una panca e non ho alternativa, pena lo starsene seduto a terra, a dividerla con un francese che, mentre sta vomitando per un probabile colpo di calore, viene prontamente soccorso dallo staff medico presente. Ormai lasciata da parte ogni stupida velleità agonistica, sono solidale con lo sventurato compagno e vorrei supplicare i medici di dargli qualcosa per rimettersi in piedi e lasciarlo proseguire: onestamente non so come sia finita, ma in cuor mio sento che é andata proprio cosí. Appena riposto nello zaino il telefono con cui ho avvertito mia moglie che in un’oretta e mezzo sarei arrivato (dalla voce non sembrava stupita di sentirmi ancora vivo), sto per riprendere il cammino quando noto un argentino che arriva con un paio di bastoni dall’aria nostalgicamente familiare; lo chiamo e lui mi guarda solo per un attimo, fissando poi lo sguardo sui due mozziconi che ho tra le mani con il volto che si illumina sempre piú: non c’é bisogno di molte parole e, stile “Carramba che Sorpresa”, ognuno di noi riabbraccia commosso i suoi cari.
Come spesso accade i piccoli particolari, nella lora immediata percezione, riescono a mutare l’umore piú di quanto facciano i grandi accadimenti, bisognosi di una lenta e sovente cervellotica elaborazione; me ne riparto cosí soddisfatto imboccando l’ultima discesa, in fondo alla quale, 900m piú in basso, appare ormai a portata di mano la meta. Lungo il primo Km su una ripida pista da sci, con lo splendido sfondo delle pareti nord del massiccio del Bianco, ho modo di ripercorrere con lo sguardo la prima parte, fino a Plan de Voza, affrontata ormai due giorni or sono. In tal modo, corricchiando i seguenti Km su un agevole sentiero che scende il crinale seguendo una lunga diagonale, ho finalmente il tempo di procedere alla cervellotica elaborazione dell’impresa, almeno tale la percepisco, che ho compiuto: il giro del Monte Bianco! Quando, a meno di 2 Km dal paese, il sentiero diviene un ampio stradone ombroso dove si incontrano numerose persone a passeggio che non lesinano incoraggiamenti e complimenti, il mio ego si gonfia a dismisura e, nonostante siano ancora numerosi i trailer intorno a me, mi sento come un imperatore romano in trionfo ed elargisco munificamente strette e battute di mano, assumendo un incedere ieraticamente maestoso .... che probabilmente appare agli astanti come il passo lento e stanco di un tapascione stravolto dalla fatica.
Percorro le prime strade di Chamonix come in trance e, superato l’Arve una prima volta, comincio nuovamente a correre lungo la Promenade fu Fori, il vialetto che costeggia il torrente, alternando stati di pudica commozione ad altri di megalomane autocelebrazione, al punto di sentirmi un novello Costantino a Ponte Milvio superando un nuovo ponte sull’Arve: “In Hoc Signo Vinces!”. Fatto l’ingresso nel centro storico, ripiego i bastoncini e tolgo il cappello, pronto a percorrere gli ultimi duecento metri per mano ai ragazzi, che subito riconosco tra la folla applaudirmi contenti a bordo strada insieme alla mamma; purtroppo vuoi per un intempestivo attacco di timidezza vuoi per la vergogna di avere un babbo cosí lento, non c’é verso di convincerli a venire insieme a me e cosí, onde evitare foto all’arrivo con loro bizzosi che mi inveiscono contro, proseguo da solo .... ad accompagnarmi alla linea di arrivo che coincide con quella che era stata la partenza trovo ancora la musica di Vangelis, ma questa volta suona soltanto per me e soltanto dentro la mia testa con “Momenti di Gloria”: bravó Michele!

 
PROFILO
 
PASSAGGI   ALTITUDINI   DISTANZE   POSIZIONE   TEMPI
Punto di passaggio Alt. Dist. partenza Velocità Class. Giorno/ora di passaggio Tempo di gara
Chamonix 1036 m       Ve. 18:00 0.00.00
Le Delevret 1739 m 13,8 5,96 km/h  2296 Ve. 20:16 2.16.32
Saint Gervais 815 m 21 6,85 km/h  2131 Ve. 21:20 3.20.10
Les Contamines 1160 m 30,7 5,08 km/h  2198 Ve. 23:21 5.21.32
La Balme 1699 m 38,8 4,38 km/h  1956 Sa. 01:13 7.12.59
Ref. Croix Bonhomme 2441 m 32,2 3,06 km/h  1933 Sa. 03:01 9.01.39
Les Chapieux 1553 m 49,4 5,33 km/h  1949 Sa. 04:01 / Sa. 04:21 10.01.03
Col de la Seigne 2507 m 59,7 4,13 km/h  1888 Sa. 06:49 12.49.11
Lac Combal 1964 m 65,6 3,38 km/h  1892 Sa. 08:45 14.44.58
Arrete du Mont-Favre 2409 m 70,1 2,75 km/h  1851 Sa. 10:09 16.08.56
Col Chécrouit 1958 m 75 5,44 km/h  1861 Sa. 10:58 16.58.23
Courmayeur - Dolonne Entrée 1191 m 78,8 4,07 km/h  1908 Sa. 12:01 18.01.43
Courmayeur - Dolonne Sortie 1191 m   0,00 km/h  1784 Sa. 12:29 / Sa. 12:33 18.29.42
Refuge Bertone 1977 m 83,7 2,88 km/h  1679 Sa. 14:11 20.11.41
Refuge Bonatti 2015 m 91 3,98 km/h  1686 Sa. 16:02 22.02.37
Arnuva 1772 m 96,2 4,52 km/h  1632 Sa. 17:11 23.11.28
Grand Col Ferret 2527 m 100,7 2,40 km/h  1593 Sa. 19:02 25.02.22
La Fouly 1603 m 110,1 5,30 km/h  1558 Sa. 20:55 / Sa. 21:22 26.55.29
Champex-Lac 1482 m 124,1 3,80 km/h  1550 Do. 01:04 / Do. 01:51 31.04.03
La Giete 1883 m 135,7 3,53 km/h  1459 Do. 05:00 35.00.02
Trient 1303 m 140,6 3,71 km/h  1474 Do. 06:17 / Do. 06:57 36.17.21
Catogne 2005 m 145,6 3,16 km/h  1465 Do. 08:40 38.39.59
Vallorcine 1263 m 150,9 3,92 km/h  1476 Do. 09:57 / Do. 10:33 39.57.48
La Tete aux vents 2116 m 158,6 3,07 km/h  1494 Do. 13:03 43.03.01
La Flegere 1871 m 161,6 3,42 km/h  1497 Do. 14:05 44.05.11
Chamonix 1036 m 169,9 4,25 km/h  1498 Do. 15:47 45.47.25
           
Tempo massimo :   46.30.00