TOR DES GEANTS 2017

 

Courmayer

settembre 2017

MICHELE  ROSATI
   
   

 

TU CHIAMALE SE VUOI EMOZIONI

 

 

Sconfitta! Disfatta! Tragedia sportiva ... e non solo! Questo il resoconto stringato della mia partecipazione al Tor de Geants del settembre scorso. D’altronde se, in una competizione che concede la media oraria di circa 2,2 Km/h, ci si pone come unico obiettivo quello di giungere al traguardo, al momento che si fallisce non penso altre valutazioni siano oggettivamente sensate. Tengo a sottolinearlo perché personalmente aborro dall’ormai onnipresente buonismo auto-assolutorio, o meglio dal suo abuso: per quanto in giusta misura indispensabile all’umana autostima, trovo semplicemente vergognoso e moralmente fiaccante lo scaricare su non meglio precisate cause indipendenti dalla nostra volontá  i propri fallimenti.

Escludendo quindi tanto la motivazione auto-celebrativa quanto la ricerca di una piattaforma posticcia di solidarietá  su cui mandare in scena la propria autocommiserazione, perché diavolo sto rivangando ricordi cosí ancora tragicamente vivi? Non si tratta né di uno sfogo né di un’autopunizione; semplicemente ritengo che emozioni tanto forti meritino di esser fissate prima che svaniscano con la caducitá  della memoria ..... per dirla con De Gregori, la guerra é bella anche se fa male!   

Il Tor é il Tor! Sicuramente il ritiro cui sono stato costretto ha contribuito a mitizzarlo nel mio personale immaginario, ma vi posso giurare che anche quello provato fino e persino durante il tragico momento é stato qualcosa di unico e spero non irripetibile .... ferale esito a parte.

Il Tor é il Tor! Gli organizzatori lo sanno bene ..... cosí  giá  la sera precedente la partenza, dopo quasi due ore di fila per ritirare il pettorale, la cena nel palazzetto di Courmayeur é fatta all’uopo per creare l’atmosfera. Il banchetto di affiliazione al mammasantissima dei trail prevede una settantina di tavoli rotondi da dieci posti l’uno, praticamente al completo. Le epiche immagini delle edizioni precedenti che scorrono sul grande schermo sono sicuramente emozionanti .... ma il Tor é il Tor e ha bisogno di ben altro: eccoci cosí  chiamati ad alzarci in piedi e prenderci per mano ognuno con i propri compagni di tavolo a recitare un pagano Pater Noster sulle note di “Siamo Soli” di Vasco Rossi. Ci sono coloro che amano il protagonismo di tali riti collettivi e coloro, tra cui si annovera il sottoscritto, che ne sono pudicamente avulsi; fatto sta che l’ammutinamento non é un’opzione contemplata e cosí , tutti indistintamente, veniamo iniziati alla setta.

Da adepto al Tor ho una notte tranquilla e riesco a riposare bene, cosí  quando domenica mattina, rimpinzato di un’abbondante colazione che mi aiuta a resistere all’altra mezz’ora di fila per la spunta, mi presento sulla linea di partenza sono piú che ottimista sotto il sole finalmente splendente dopo la pioggia del giorno precedente. La partenza va ascritta nelle cose da ricordare: la piú emozionante cui abbia mai preso parte, forse seconda soltanto a quella dell’ultratrail del Monte Bianco. Tutta Courmayeur é riversata sulle strade ad applaudirci ed incoraggiarci .... fortunatamente non ho mai provato sulla mia pelle il turbinio di sentimenti di un migrante che usciva da un porto verso le Americhe o di un soldato che saliva in treno verso il fronte ma, senza voler mancare di rispetto a questi veri eroi, lo immagino come qualcosa di simile.

All’uscita del paese mi trovo imbottigliato nelle ultime posizioni all’imbocco del single track con cui cominciamo a salire il Col Arp, che valico ancora in fila indiana dopo aver ripensato per tutta la salita alle condizioni cadaveriche in cui versavo l’anno scorso al 4K, mentre affrontavo lo stesso percorso in senso contrario durante la seconda notte di gara ...... dando per scontata una crisi del genere mi autoconvinco che, anche alla luce dell’esperienza, saró nuovamente in grado di rigenerarmi catapultandomi in una dimensione al di fuori della mia limitata fisicitá .

Affronto la facile discesa verso La Thuile con molta calma e, dopo un breve ristoro, mi trovo giá  notevolmente affaticato sulle dure, ma non proibitive, rampe che conducono al rifugio Deffeyes, tanto che prima di giungervi faccio una sosta non programmata di una ventina di minuti insieme a Enrico, l’amico trailer romano, con il quale comodamente stesi al sole su un prato ci godiamo in panorama-vision la splendida cartolina del laghetto Des Glaciers sormontato dalle imponenti pendici del Rutor.

Giunti al rifugio la temperatura, complice anche un vento piuttosto sostenuto, cala sensibilmente, tanto che insieme a Roberto e Daniela, foianesi compagni di avventura, decidiamo di indossare giacca antivento e guanti per affrontare le ultime rampe che conducono al colle di Passo Alto. Me la cavo abbastanza bene sulla pietraia che scende verso il ristoro all’alpeggio di Promoud, dove mi prendo tutto il tempo necessario per affrontare l’imminente salita del Col de la Crosatie, primo duro test della gara. Affrontato all’imbrunire con il giusto passo, cioé lentissimamente, riesco a percorrere tutta l’erta pietraia con il sentiero che vi si arrampica a ripidi tornanti senza fermarmi, ma una volta giunti sulla cresta comincia il bello: le frontali ormai accese di coloro che mi precedono tracciano una verticale verso il cielo, che qualcuno alle mie spalle sento paragonare a quella del Cervino. Per salire gli alti scaloni mi aggrappo a qualsiasi appiglio allo scopo di scaricare il piú possibile il peso anche sulle braccia: ciononostante in queste poche centinaia di metri infernali sono costretto a fermarmi almeno sette od otto volte per rallentare i battiti di un cuore che sento scampanare ad ogni passo piú in alto nel petto, come volesse infine saltarmi fuori dalla gola.

Sono in cima e, salvo alcuni tratti iniziali dove ad una delle prime edizioni perse la vita uno sfortunato  cinese, so che adesso mi attende una facile discesa fino a Planaval, punto di ristoro praticamente nel fondovalle. Durante i successivi cinque Km che salgono impercettibilmente costeggiando il torrente verso Valgrisenche mi sento sempre piú stanco e l’ultimo Km di salita leggermente piú impegnativa per giungere alla frazione di Bonne, dove é posta la prima base vita, mi mette definitivamente al tappeto.

Dopo un’ora steso in branda con gli occhi chiusi ma senza riuscire a dormire non sono affatto riposato e, ció che piú mi preoccupa, sento lo stomaco in disordine, riottoso a mandar giú pasta, formaggio o qualsiasi altro tipo di alimento. Sono le tre del mattino e per esperienza so che mettermi nuovamente in cammino in queste condizioni equivarrebbe ad un suicidio, considerata anche l’estrema durezza della successiva tappa con altri tre colli da affrontare, di cui due oltre i tremila metri di altitudine. Ho un’intuizione probabilmente bollata da molti nutrizionisti come perniciosa scempiaggine, ma che risulta geniale per il mio organismo sí  libertino nel gozzovigliare: tracanno tutto di un fiato un boccale di birra fresca che, dopo aver causato un paio di roboanti emissioni esogene silenziate a fatica, mi solletica l’appetito per un abbondante piatto di pasta al pomodoro ed un paio di uova sode ... piú un’altra birra di puro accompagnamento.

Le gambe sono ancora fiacche ma, passati sull’altro versante della valle usando la diga di Beauregard come ponte, l’agevole salita verso lo Chalet Epée  consente loro di compiere il minimo sindacale e cosí  mi trovo ad affrontare le ultime rampe verso il Col Fenétre rischiarato da un’algida alba: finalmente mi posso godere alla luce del sole l’impervia discesa nel canalone dall’altro lato, che ricordavo dall’anno passato come la salita forse piú dura di tutto il 4K. Nonostante il passo piú che cauto, vista la discesa praticamente verticale, in poco piú di un’ora sono al ristoro di Rhemes Notre Dame, dove continuo la cura endocrina a base di birra.

Traversata la strada ci attende senza soluzione di continuitá  la salita al primo tremila di giornata, il Col de Entrelor dal versante che, percorso in discesa l’anno prima, ricordo assai impegnativo .... ovviamente in salita si dimostra terribile e mette a nudo la crisi che giá  sentivo latente dalla sera precedente. Sulle durissime pietraie non c’é verso di andare avanti ed ogni masso liscio che incontro sul sentiero che vi si inerpica diviene un comodo letto su cui stendere le spossate membra. Non mi faccio prendere dal panico e resto sempre ottimista nell’attendere che la miracolosa traslazione psico-dimensionale si compia ancora, anche perché vedo che gli altri non se la passano poi troppo meglio. In qualche modo, assai malo, raggiungo lo scollinamento ed intraprendo la discesa, molto piú agevole seppur lunghissima, fino ad Eaux Rousses dove al ristoro giungo con circa quattro ore di vantaggio sul cancello orario, meno di quello che speravo. Mi prendo comunque una lunga pausa, penso almeno quaranta minuti, disteso su una comoda sdraio al sole, beccandomi pure una puntura sulla gamba da una delle numerose api attratte dagli zuccherosi sali delle borracce. Alla ripartenza mi attende infatti la scalata alla cima Coppi del Tor, il mitico Col Loson che con i suoi 3300m capisco da subito essere lo spartiacque della mia gara: sono giá  stanco morto e, nella normale dimensione corsa trail, ci sono possibilitá  praticamente nulle di valicarlo .... ma ancora non dispero!

La prima parte di salita nel bosco con cui lasciamo il fondovalle é fortunatamente abbordabile e mi consente di prendere sempre piú fiducia nelle mie gambe, che cominciano a girare senza gli eccessivi sforzi patiti nelle ore precedenti, quasi che il doloroso siero iniettatomi dall’ape sia stato un doping divino. Giunti ai 2300m della cappella votiva di Levionaz Desot ci allontaniamo dalla vallata inoltrandoci nell’omonimo canalone, che ci porterá  al passo dopo ulteriori mille metri di dislivello. Ecco finalmente il segnale divino che aspettavo! Un trailer fermo una cinquantina di metri avanti a me mi fa segno di tacere e guardare sulla destra, dove un branco di cinque stambecchi ci sta curiosamente osservando; proseguo facendo meno rumore possibile e, svoltata una curva con cui scopro un altro versante del pendio, ne scorgo altri quattro o cinque gruppi, alcuni dei quali sembrano essere nuclei familiari con i loro piccoli. Parlare di anti-sindrome di Stendhal in versione naturistica, con rallentamento dei battiti cardiaci e goduriosa propalazione di endorfine nell’organismo, sarebbe forse eccessivo, ma non v’é dubbio che questo emozionante spettacolo ha la forza di ricordarmi il motivo ultimo per cui, a distanza di un anno esatto, mi sono preso un’altra settimana di vacanza “particolare”: godere di queste meravigliose montagne, dei prodigi della natura tutta e del mio smisurato io che ad essa appartiene!

Seppur in maniera assai piú cosciente dell’anno scorso, quando mi risvegliai come inebetito dopo un micro-sonno forzato sotto la pioggia, sono finalmente riuscito a cambiare dimensione ed orizzonti, principalmente nella mia testa, ma é il corpo tutto a risentirne i benefici effetti: nelle successive due ore racchetto felicemente in salita senza mai fermarmi, neppure sulle ultime durissime rampe, salvo una breve sosta necessaria per indossare la lampada frontale, mangiare un pezzo di formaggio .... ed elaborare la tattica che mi consentirá  di tornare a guadagnare sui limiti dei cancelli orari.

Valico la vetta del Tor che é ormai buio pesto e scendo con estrema cautela i primi ripidissimi tratti piuttosto esposti dell’altro versante fino a raggiungere il rifugio Sella, dove mi butto su un comodo letto dormicolando per una mezz’oretta, deciso a saltare la successiva base vita di Cogne. Alla ripartenza dopo uno spuntino sono costretto a corricchiare il primo tratto di discesa, fortunatamente agevole, per riscaldarmi dal freddo pungente. Trovato l’equilibrio termico me ne procedo con calma fino a Valnontey da cui, imitando il valdostano Ivano insieme al quale avevo fatto molti Km insieme pure l’anno scorso, raggiungo Cogne camminando agevolmente sulla strada asfaltata deserta piuttosto che sul sentiero fittizio ad essa parallela, fiducioso di non esser sgamato da nessun intransigente giudice di gara alla mezzanotte passata di lunedí . Come programmato sosto a Cogne soltanto un’oretta, tempo necessario a sistemarmi le fasciature dei piedi e corroborare il fisico con un’abbondante cena tardiva o, se preferite, colazione anticipata.

Mi trovo improvvisamente con persone che erano arrivate a Cogne perlomeno due o tre ore prima del sottoscritto e quindi, mentre io cammino blandamente sull’ampio stradone sterrato che conduce a Lillaz, faticando a tenere gli occhi aperti, molti di loro mi superano corricchiando. Ho un improvviso risveglio entrando nel sentiero che sale deciso verso il ristoro di Goilles Desot; noto con piacere che riesco a tenere il loro stesso ritmo e cosí  per tutta la successiva salita nel bosco. Uscendo dagli alberi, l’ampio e lungo vallone in quota é spazzato da un gelido vento, da cui trovo felicemente riparo una volta raggiunto il rifugio Sogno; non vorrei sostarvi troppo a lungo ma sento l’impellente bisogno di dormire e, appena finito di mangiare, lo faccio esattamente nel modo per il quale prendevo sempre in giro il mio povero nonno alla fine del pranzo: gomiti ben piantati sul tavolo, testa fra le mani e via alla russata libera!

Il pisolino ha la sua sperata funzione ristoratrice e, senza faticare troppo, mi godo come una piccola impresa da esploratore gli ultimi trecento metri di dislivello che portano al colle Fenetre de Champorcher sotto un’innocua burrasca di acqua gelata .... proprio come quella che tento invano di bere dal beccuccio della borraccia. Oltre il valico siamo accolti dall’immensa vallata che dovremo scendere per i prossimi trenta Km con gli acceccanti riverberi della neve che nei giorni precedenti si era giá  posata intorno al sentiero. Superato il lago Miserin me ne scendo tranquillamente per l’agevole carrozzabile usata dalle jeep dei pastori fino al rifugio di Dondena dove, sorbendo un buon caffé espresso, noto il nome sul pettorale di un ragazzone appisolato sulla sedia accanto alla mia: faccio finalmente conoscenza con Loris, il milanese che ha portato i colori dei Siena Runners in molti degli ultratrail cui ho partecipato od avrei voluto; a pelle capisco giá  che si tratta di una persona squisita, come avró modo di apprezzare in seguito. Belle persone si riveleranno anche gli amici che sta aspettando, Alessandro, Stefano e Silvia, questi ultimi due giá  compagni di avventura all’Orobie del Luglio scorso. Si ricrea cosí  una situazione analoga al 4K dell’anno precedente, con questo quartetto al posto di quello della Valsesia, con cui ci troveremo  spesso sul percorso e praticamente ad ogni ristoro, scambiando piacevoli battute.

Scendendo progressivamente di quota il clima diviene sempre piú mite e comincio a spogliarmi  approfittando ben volentieri di piccole soste steso sulla fresca erbetta degli ameni pascoli, fin quando la valle si stringe e la discesa si fa piú ripida per giungere al paese di Chardonney. Sembra proprio tempo di rimpatriate ed in questo tratto incontro Maurizio, il giovanile quasi sessantenne con cui eravamo ripartiti di gran carriera sotto il temporale negli ultimi Km delle Orobie. Lasciato il ristoro facciamo insieme tutto il lungo tratto successivo che, inoltrandosi nel bosco con lunghi tratti rocciosi e spettacolari passerelle esposte sui profondi orridi solcati da acque ora impetuose e cinque minuti dopo placidamente adagiate in pozze cristalline , si rivela ben piú lento del previsto. Ascolto, tutto sommato con piacere, il monologo di Maurizio, che sente evidentemente il bisogno di sfogarsi raccontando le sue vicende personali: penso che anche questa si possa considerare solidarietá  tra trailer. Mentre veniamo superati da diversi concorrenti che affrontano questi aspri tratti in discesa ad una velocitá  ben maggiore, non pongo troppo attenzione alle sue parole, che si riveleranno ahimé assai sagge, sulla necessitá  di preservare gambe e giunture per gli altri duecento e piú Km che ancora ci attendono. Fatto sta che quando a Pontboset Maurizio trova sua figlia ed un paio di amici ad attenderlo, aumenta il passo ed io me ne continuo tranquillamente a scendere verso la vallata principale della Dora che, completando tutta l’Alta Via numero 2, attraverso ad Hône raggiungendo la quota piú bassa della gara, circa 300m. Ritrovata finalmente l’estate, cammino con calma per il centro di Bard con la testa quasi sempre volta all’insú per ammirare il maestoso forte e per il successivo Km che mi conduce alla base vita di Donnas, calpestando pure lo storico lastricato romano dove incontro (altra rimpatriata!) Graziano armato di macchina fotografica che attende Ermanna, con la quale avevamo condiviso praticamente tutta la seconda metá  del 4K lo scorso anno.

Faccio il mio ingresso in base vita avendo quasi otto ore di vantaggio sul cancello orario; questo bel tesoretto mi consente di dormire due ore di profondissimo sonno in branda e guardare con roseo ottimismo alla prossima tappa, considerata la piú dura di tutto il Tor: oltre al terreno che ricordo asperrimo, in questo verso dobbiamo per di piú riguadagnare subito quota, praticamente dal livello del mare, fino ad oltre duemila metri, per poi proseguire in un continuo saliscendi che, una volta giunti a Gressoney, ci avrá  fatto compiere seimila metri di dislivello positivo in poco piú di 50 Km. Mi incammino nuovamente sul far della sera e, salutato all’ingresso del ponte romano di Pont Saint Martin dal caratteristico diavolo che ci incita brandendo il suo forcone, accendo la frontale intraprendendo le dure rampe, spesso a scalini, che ci conducono alla chiesa di Notre Dame de la Guarde dove, ancora salendo, imbocchiamo l’Alta Via numero 1 con cui faremo ritorno, almeno  parte di noi, a Courmayeur solcando le valli settentrionali della regione.

Mentre scendo per poche centinaia di metri verso l’abitato di Perloz, mi chiedo se anche quest’anno la piazza pricipale dove é posto il ristoro sará  animata come l’anno precedente. Percorrendo i caratteristici vicoli del centro incontro alcune persone che mi dicono che poco piú avanti c’é la festa ad attendermi, fin quando il brusio crescente si traforma in nitido suono di canti e fisarmoniche. Rispetto al passaggio a notte fonda dell’anno precedente, la fascia serale del primo dopocena avrá  sicuramente avuto il suo influsso, ma oltre al maggior numero di presenti é lo spirito di queste persone che sentono il Tor come patrimonio loro e di tutta la Valdaosta a rendere eccezionale questa festa paesana, di questo stiamo parlando, ed eternarla nella mia memoria. Accanto al solito tavolo, sempre ben fornito, con formaggi, salame, biscotti, crostate, frutta, sali, coca e quant’altro dato dall’organizzazione, c’é quello paesano ben piú ampio. Ovviamente non prendo neppure in considerazione il primo e mi avvento sul secondo: in una mano una focaccia al gorgonzola che rimpinzo di squisita ricotta e nell’altra un bicchiere di prosecco con cui accompagno ritmicamente le note di “Questa é casa mia e qui comando io” cantata da tutti gli astanti; eccomi poi brandire, insieme a del formaggio piccante, un bicchiere di bianco con cui tento di solfeggiare un’incomprensibile canzone in Patois valdostano; siamo agli squisiti affettati locali e maledico di essere cosí  stonato da non poter neppur tentare di intonare “Sono una rondine (...e il cuor mi scianguina)” mentre agito in aria il bicchiere di rosso con le caratteristiche ritmiche volute dell’allegro andante mosso. Prima di lanciarmi in arditi giri di liscio con le signore locali, raccolgo gli ultimi barlumi di luciditá e a malincuore mi metto di nuovo in cammino ..... dopo la breve discesa per attraversare il Lys sul fiabesco ponte di Moretta, ci penseranno le successive rampe verso Sassa a farmi velocemente smaltire i fumi dell’alcool.  

Quando giungo al ristoro dopo vari Km di erte scalinate stile costa amalfitana sono abbastanza stremato ed é con piacere che trovo un posto libero per sdraiarmi in branda dentro una tenda. Come programmato mi vengono a chiamare dopo quaranta minuti; é una vera tortura uscire dal calduccio del covile per immergersi nuovamente nel gelo della notte e soprattutto affrontare gli ulteriori 800 metri di dislivello, buona parte dei quali provando a destreggiarsi alla meno peggio tra i massi che rendono il sentiero una scelta puramente discrezionale. Giunti sul crinale devo rinunciare per il secondo anno consecutivo alla vista di Biella e della pianura circostante, che giá  pregustavo come uno sconfinato bailamme di luci, ermeticamente sigillate peró dentro una coltre di dense nuvole ormai sotto di noi. In compenso il rifugio Coda non appare piú una chimera e con un ultimo sforzo mi trovo al suo interno ancora una volta con i gomiti piantati sul tavolo ed il capo tra le mani ...

Si riparte finalmente in discesa, anche se tosta, per poi continuare nel mare di pietre che sono conscio saranno in nostra compagnia per molte ore ancora. Nel successivo saliscendi prima del lago Vargno mi imbatto in un ristoro non previsto in localitá  Gouillas. Una coppia organizza ogni anno, celebrando il Tor di sua spontanea volontá , questo simposio con specialitá  da loro preparate, come apprendo dai loro racconti ammirato al limite della commozione, mentre fagocito squisiti salami, un sublime budino al cioccolato, dolcissime uva e prugne accompagnati da ottimo prosecco e non posso che sinceramente perdonare la signora che continua a scusarsi per non aver trovato i fichi. Ben venga lo spirito vacanziero che sin dall’inizio mi ero prefissato per quest’avventura, ma sinceramente il libidinoso godimento sta ormai raggiungendo livelli neppur sognati!

Arrivo cosí  sul far del giorno al bellissimo, quasi direi lussuoso, rifugio della Barma, dove approfitto di un comodo letto per un’altra oretta di sonno. Fatta una robusta colazione con Loris e compagni, da cui scrocco pure una birra che avevano preso in piú ( ... ovviamente dopo aver giá  tracannato la mia), sono nuovemente sul sentiero, che presto offre una ben gradita tregua trasformandosi in un comodo stradone carrozzabile lungo il quale arriviamo in un paio di Km all’imbocco della salita per il col di Marmontana. Dalla cima dobbiamo scendere a capofitto verso il lago Chiaro dove ben si distinguono i trailers intorno al punto di ristoro eli-trasportato. Quando vi giungo non dico che ho lo stomaco ingolfato, ma sinceramente dopo tutti gli stravizi della notte non ce la faccio a farmi ancora una mangiata .... cosí  prendo solo un piccolo assaggio di carbonada, un sublime stufato di carne, con appena un dito di barbera.

L’idillio continua fino a superare l’incredibile spaccatura nella roccia della Crenna dou Leui che giá  mi prefiguro, improvvido ottimista, come antipasto del passaggio finale sul Malatrá  prima dell’ultima discesa verso Courmayeur. La musica comincia a cambiare nel petroso mare che devo traversare per giungere al Passo della Vecchia, da dove intraprendo la lunga discesa verso Niel giá  piuttosto stanco; quando poi cominciamo a salire e scendere nel bosco con il tempo che passa inesorabile e mi rendo conto di essermi mangiato buona parte del vantaggio accumulato sul tempo limite, il barometro umorale vira decisamente a burrasca, con annesse imprecazioni verso tutto e tutti. La gioiosa animazione dei numerosi tifosi presenti al ristoro del paese, che alla fine raggiungo con solo tre ore di vantaggio rimaste sul cancello orario, mi tira un po’ su di morale e riparto alla scalata del Col Lasoney con i calorosi incoraggiamenti di Graziano e Fabrizio, il trailer abruzzese coadiuvatore nell’organizzazione del Tuscany Crossing qui in veste di accompagnatore, che si sono presi amorevolmente cura di me servendomi gustosa polenta e bevande mentre ero seduto a riposare. 

Raggiunto lo scollinamento riconosco immediatamente il lungo vallone di Loo, quest’anno tutto in dolcissima discesa che, per riguadagnare un po’ di tempo, decido di correre dopo aver preso un Oki contro il solito mal di piedi ed essermi riposato per una decina di minuti. Trotterello quindi tranquillo e beato superando comunque diversi concorrenti quando alle mie spalle arriva come un fulmine Ermanna, anch’ella preoccupata per il dissolversi del tesoretto di tempo sin qui accumulato. Ancora non so e mai lo sapró se é in questo preciso istante che firmo la mia condanna a morte ... mi piace sperare di averla solo anticipata di qualche ora o magari tutto sarebbe andato comunque nella stessa maniera .... fatto sta che sentendomi veramente bene, complice forse l’antidolorifico, non esito un istante a prendere la scia della fuoriserie modenese e la tallono fino al ristoro dove non faccio in tempo neppure a sentire le festose scampanellate con cui siamo accolti e rifornire le borracce che lei é giá un centinaio di metri avanti. Eccomi cosí  ripartire a molla per riagganciarla; imbocchiamo insieme l’ultimo tratto di ripida discesa nel bosco che ci porterá  al fondo valle: se fino a questo momento, correndo per agevoli pascoli, mi ero forse comunque preservato, con insana demenza facilmente diagnosticabile col senno di poi, mi butto giú per il sentiero come fosse l’ultima cosa da fare prima di morire. L’incipiente oscuritá  ci obbliga ad una sosta per indossare la frontale ed in quel preciso istante, quasi che la torcia rischiari anche le mie onnubilate meningi, mi rendo conto che non ha senso continuare a forzare per guadagnare non piú di venti minuti sull’arrivo alla base vita di Gressoney e cosí , salutata Ermanna, riprendo l’abituale andatura turistica e tento di elaborare una proficua strategia per le tappe venture ..... cosa che avrei dovuto fare sin dalla sommitá  del colle, a prescindere se la mia dissenata condotta di gara durante l’ultima ora sia stata o meno l’origine dei miei guai.

Raggiunta la strada mi sento tutto sommato bene e non troppo stanco a differenza di Noe, un ragazzo messicano che vedo vistosamente sbandare sul marciapiede un centinaio di metri davanti a me, rischiando piu volte di finire pericolosamente disteso sulla carreggiata della statale. Gli urlo a tutta voce di aspettarmi senza che questi neppure si volti e cosí  mi produco in un ulteriore scatto per andare a sorreggerlo, convinto che gli sia venuto un coccolone: in realtá é semplicemente addormentato e sta andando avanti ad occhi chiusi. Duecento Km di sentieri montani sembrano aver fiaccato anche il mio naturale egocentrismo, tanto che non esito un istante a passargli il braccio destro sopra le mie spalle e portarlo con me guidandolo e sostenendolo: ecco che ha inizio l’ultima parte della mia gara, costellata da deamicissiane buone azioni e samaritani soccorsi nei miei confronti, al cui pensiero mi commuovo ancora .... per favore non chiedetemi peró di scegliere tra tanta encomiabile bontá e la soddisfazione di arrivare a Courmayeur: se una cosa avesse escluso l’altra, molto probabilmente Noe sarebbe adesso un tatuaggio perfettamente aderente all’asfalto.  

Come una coppia di caracollanti ubriaconi giungiamo alle porte del paese; alcune centinaia di metri prima della base vita consegno l’ingombrante pacco alla moglie ed al fratello che lo stavano aspettando a gloria i quali, tanta é la foga latina nel festeggiare il prode salvatore che, per ringraziarmi ed abbracciarmi, quasi lasciano il meschino piombare a terra. Ammantato di questa inaspettata aura di santitá, faccio ingresso nel palazzetto con due ore di vantaggio rimaste sul cancello orario, quattro se consideriamo quello in uscita. Valutata la relativa facilitá  della tappa seguente fino a Valtournache, prendo una decisione apparentemente avventata ma che ancora adesso reputo strategicamente azzeccata, sicuramente non responsabile del mio cedimento strutturale prossimo a venire:  mi fermo soltanto per un’ora, ossia il tempo necessario a dar sollievo ai piedi e mangiare un boccone ... anzi due.

Alle 22 di mercoledí sono nuovamente in strada, avvolto nelle tenebre di un cielo che rannuvolandosi non promette nulla di buono. É dura percorrere da solo gli ampi stradoni che costeggiano il fiume per un paio forse tre Km rimanendo sveglio; alcune volte temo di far la fine del messicano, ma mi concentro sulla luce ben visibile del rifugio Alpenzu, prossimo ristoro, dove i sempre piú radi lumicini rivelano il passaggio degli ultimi concorrenti del Tot Dret, il nuovo fratellino minore del Tor, partiti da Gressoney alle 20. Lasciato finalmente il fondovalle per imboccare la salita, noto con crescente ottimismo che sulle rampe durissime, benché dal fondo facile, riprendo e lentamente distanzio alcuni concorrenti ripartiti con me dalla base vita e che piú non avevo visto dal primo giorno di gara. Una mezz’ora di profondo sonno nel comodo letto del rifugio cui fa seguito un buon caffé e parte la sfida al Col Pinter, uno degli ultimi quattro o cinque duri scogli rimasti. Mi trovo da solo sul sentiero che, tracciando una lunga diagonale attraverso i pascoli, mi porta sempre piú vicino al limite delle nubi .... finché non ci sprofondo letteralmente dentro. All’inizio ho paura di perdere la traccia, ma poi mi tranquillizzo quando vedo che prestando attenzione riesco a seguire il sentiero e a scorgere la successiva bandierina catarifrangente pochi passi dopo aver superato la precedente. Vuoi per la fantasia stuzzicata dall’esser sopeso in questa sorta di etereo limbo, vuoi per la concentrazione che ripongo nel non sbagliar strada, procedo praticamente senza avvertire la fatica fin quando, come per miracolo, lascio le nuvole sotto i miei piedi e, novello Dante uscito a riveder le stelle, scorgo ancora abbastanza lontano dei lumini che sembrano arrampicarsi quasi in verticale. Gli ultimi ripidi tratti spazzati dal vento mi mettono infatti a dura prova, ma riesco comunque a raggiungere il colle facendo una sola breve sosta; steso a terra tra i massi il piú possibile al riparo dalle sferzanti folate, aspetto alcuni minuti perché faccia effetto l’Oki appena preso allo scopo di rendermi la lunga discesa verso Champoluc il piú agevole possibile.

In effetti il primo tratto assai impegnativo, con erti gradoni che scendono un aspro valloncello detitrico, scorre via liscio e, quando ormai mi rilasso lungo i tornanti del piú agevole sentiero, ecco che subitaneamente, insieme al mio ginocchio sinistro, si incrinano tutti i sogni di gloria che ormai consideravo quasi certezze. Sento come un pernio inserito all’improvviso nell’articolazione che mi impedisce assolutamente di muoverla; istintivamente mi stringo con la mano la parte da dove ho sentito partire il grippaggio e come per magia il ginocchio si piega ancora, fatti pochi passi ecco di nuovo lo stop ed il repentino sblocco e cosí ancora un paio di volte, fin quando ricomincio a camminare apparentemente senza problemi. Ormai peró nubi ben piú fosche di quelle che si ammassano in cielo si addensano nella mia testa: un dolore di questo tipo, come una vera e propria rottura, non l’avevo mai avvertito prima e non promette nulla di buono. Con cautela ma senza ulteriori problemi arrivo alla zona delle piste da sci di Cuneaz e continuo a scendere fino a Crest, dove all’esterno del rifugio una volpe ormai domestica non si cura della mia presenza e continua a banchettare con dei biscotti lasciati sul tavolo per coloro che non hanno intenzione di fermarsi e continuare diretti per Champoluc, a venti minuti di cammino recita un cartello. Io stesso sono indeciso sul da fare ed alla fine opto per entrare a prendere qualcosa di caldo, che poi accompagno con dell’ottimo yougurt e mirtilli freschi.

Quando lascio il rifugio sono le cinque di giovedí mattina; l’euforia di avere nuovamente almeno sette ore di margine sul cancello orario, che chiude alle 13 tra tre km, mi fa dimenticare per un attimo i miei acciacchi, ma ci pensa la prima rampa in discesa un po’ piú ripida a pormi ancora innanzi alla cruda realtá: il ginocchio si blocca una volta, poi una seconda, poi una terza e non so dire se siano venti o trenta in totale, con conseguente sbloccaggio sempre piú laborioso e dispendioso in termini di tempo. Alla fine, invece dei quaranta minuti preventivati, faccio ingresso al centro polifunzionale di Champoluc dopo quasi due ore in preda alla piú nera depressione, con l’ultima vana speranza di trovarvi un taumaturgico fisioterapista. Mi imbatto invece in un infermiere che, aprendo le braccia sconsolato, non ha altro sortilegio da propormi che una pomata antinfiammatoria.

Non sono particolarmente stanco, ma mi stendo comunque in branda per vedere se un po’ di riposo possa giovare; non provo neppure a chiudere gli occhi che fissano spalancati l’inespressivo soffitto, mentre un sordo dolore mi trafigge l’anima e trattengo a stento le lacrime.

Saluto Ermanna che intanto é arrivata e sta ripartendo, mi faccio applicare dell’altra pomata ed esco nel plumbeo mattino per compiere gli ultimi passi verso il patibolo. Sulla porta mi imbatto nel fratello e nella moglie di Noe, che me lo vogliono presentare a tutti i costi, in quanto il sonnambulo non ricordava ovviamente niente della sera precedente: eccoci quindi nuovamente a lodi sperticate ed ossequiose celebrazioni ... manca giusto si inchini a baciarmi la mano e modificare il nome nel mio pettorale in Sua Ecellenza Don Michele!

Lungo i tre Km in leggerissima salita che costeggiano la strada non avverto nessun dolore, solo un leggero fastidio; stai a vedere che forse ..... si é rotto davvero! Al primo passo fuori dall’asfalto sul sentiero, questa volta in salita, ecco il grippaggio che sembra definitivo in quanto non c’é verso di sbloccarlo. Mi trascino in qualche modo a sedere sul muretto al ciglio della strada e, con il ginocchio tra le mani, tento di elaborare la disfatta che ormai sento inevitabile. Soffoco le emozioni in una gelida apatia con la quale annuncio a Graziano, che sta tornando indietro dopo aver accompagnato per un tratto Ermanna, di come sia costretto a ritirarmi; lo metto nell’imbarazzante situazione di non saper cosa dire e me ne dispiaccio ...d’altronde una delle angariose (se ad un giovane scolaretto l’Accademia della Crusca ha passato l’aggettivo “petaloso”, da narratore vate dei trail mi sento autorizzato a creare neologismi miei propri!)  vigliaccherie umane, fine soltanto a se stessa, é cercar di far provare agli altri la propria disperazione, pur non avendo ció alcun effetto consolatorio.

Come la spada del samurai sconfitto estraggo il cellulare dallo zaino e chiamo Monica, mia moglie, per comunicarle che ho deciso di ritirarmi e che non si preoccupi se per le prossime ore vedrá  il mio segnale gps fermo nello stesso punto ... con lei non riesco a mantenere la corazza di apatia e devo spesso interrompere il racconto degli ultimi accadimenti per non scoppiare a piangere. Appena finita la telefonata, fortunatamente ben meno risolutoria del tradizionale harakiri, ecco che mi si parano davanti due angeli con le fattezze umane di Loris ed Alessandro per distogliermi dall’insano gesto. Spiego loro la tragica situazione ed eccoli trasformati in esperti ortopedici che tentano in ogni modo di rimettermi in piedi perché, se c’é una cosa di cui sono sicuri, é che questo ritiro mi fará  piú male  e per molto piú tempo del ginocchio .... devo ammettere che Cassandra era in confronto una dilettante. Dopo vari consulti gli improvvisati luminari che prendono in considerazione bandelletta, legamenti, menischi, protusioni ossee e quant’altro, optano per un bendaggio applicato sapientemente da Alessandro con la fascia adesiva elastica di Loris, che me ne lascia pure alcuni scampoli di riserva e mi redarguisce bonariamente in quanto, se pur fecente parte del materiale obbligatorio, da sciagurato incosciente quale sono, ne ho una assolutamente non adatta allo scopo. Prima di proseguire i misericordiosi missionari mi riforniscono pure di Oki; prendo cosí  il quarto  delle ultime sei ore, anche se non é proprio il caso di dire a stomaco vuoto, decidendo di aspettare una ventina di minuti prima di provare a ripartire.

É giunta l’ora di verificare l’effetto delle medicazioni, mi alzo in piedi e faccio i primi tre passi nell’erba miracolosamente senza dolori, ma al quarto avverto una fitta tremenda ed il ginocchio é nuovamente bloccato; stavolta non c’é apatica rassegnazione che tenga: mi butto in terra, lancio via le racchette imprecando e scoppio in un pianto di impotente frustrazione. Ormai sono il protagonista di una fiaba ed ecco la Fata Turchina che nelle umane sembianze di Mattea, una trailer con qualche anno di esperienza in piú di me, si avvicina e con amorevole pacatezza si informa di cosa mi affligga. Le racconto la mia storia ed ella in pochi minuti, con quella calma propria dei saggi che comprendono ma non commiserano, mi dá  una lezione di etica dell’ultratrail che mai dimenticheró; il sottoscritto non é in grado di esprimere quello che é riuscita lei con la maieutica arte di Socrate, ma in soldoni il concetto apparentemente banale é che non bisogna mai arrendersi fin quando non si rischiano gravi danni.

Alzati e cammina! E cosí ecco Lazzaro che riesce a muovere nuovamente il ginocchio ed intraprende, incredulo all’inizio e poi sempre piú ottimista, la salita che lo conduce ottocento metri piú in alto al rifugio Gran Tourmalin. Siedo al tavolo con la santona mangiando di gusto della macedonia di frutta fresca con spremuta espressa di arance e, dopo il quinto Oki, riparto con una flebile fiammella di speranza ancora accesa. Supero senza dolori l’ultima parte sassosa del sentiero che conduce al Col di Nana e, seppur con estrema cautela, attraverso agevolmente l’ampia dolce conca che si estende nel mezzo al nulla dei 2700 metri di quota per portarmi al Col des Fontaines. Muovo pochi passi nella successiva discesa ed il ginocchio é una volta ancora dolorosamente bloccato.

Mi siedo a terra e lo massaggio per una decina di minuti, ma quando passa Mattea e senza neppure fermarsi allarga impotente le braccia, domandando e constatando insieme “Ti é successo di nuovo?”, capisco in cuor mio che questa volta é finita davvero. Non voglio peró deluderla e sono deciso a seguire fino in fondo i suoi precetti. Inviato forse da un divino sceneggiatore ecco arrivare Noe che, vedendomi fermo a terra con il ginocchio grippato, avesse potuto mi avrebbe donato il suo .... ed in qualche modo é quello che fa: dopo avermi consegnato alcune bustine di balsamo di tigre, un unguento che spalmato sulla parte dolorante ha a suo dire prodigiosi effetti,  si toglie la ginocchiera e me la porge, dicendomi che adesso serve a me. Questa volta sono io che vorrei prostrarmi ai suoi piedi e baciarlo, opto peró alla fine per un piú sobrio ma comunque calorosissimo abbraccio.

Rischio oggettivo di terapia di gruppo al SERT con il sesto Oki, ginocchiera stretta sulle carni arroventate dalla pomata del messicano che sembra essere a base di peperoncino habanero, mi metto in piedi e tento invano di muovere alcuni passi. Mentre aspettando un altro miracolo sono costretto a sperimentare il retrorunning-trail, il divino sceneggiatore vuol chiudere la tragicommedia con un tocco di grottesca comicitá e mi manda un dinoccolato giapponese, presunto o millantato fisiatra non so, che non sa spiccicare una parola di inglese, ma che in kyotese stretto sembra dirmi “Ghe pensi mi”. Vi prego di rammentare che tutto ció si svolge in un ambiente prettamente alpino, dove sono praticamente bloccato ad oltre 2500m di quota da circa un’ora. Pochi giorni or sono mi sono imbattuto nuovamente in lui facendo zapping in TV e riguardando l’esilarante episodio di “Occhio, Malocchio, Prezzemolo e Finocchio”, dove il grande Renzo Montagnani cerca di consumare un’unione carnale con una procace ragazza vestito da giapponese con tanto di fascia da kamikaze e kimono: “ohohohohsaka!” ed eccomi chino a novanta gradi con questo che tenta di allungarmi non so quali muscoli; “tohohohohohshiromifumano!” in piedi con la gamba stesa incrociata davanti all’altra che devo toccarmi le punte dei piedi; “banzahhhhhhhiiiii!” il mio grido quando nella suddetta posizione  mi entra con le mani dentro il femorale (per i malpensanti trattasi di muscolo della coscia). Mentre l’eco delle mie urla risuona ancora tra le rocciose vette, lui mi quarda soddisfatto e mi invita a constatare i miglioramenti: fortunatamente per lui non ce ne sono di sorta cosicché, dopo l’immancabile inchino di commiato, non posso dargli dietro e fargli esperire una mia personalissima massoterapia!

Convinto che se fosse ancora con me la Fata Turchina approverebbe adesso la mia resa, estraggo nuovamente la spada per il definitivo harakiri: con il cellulare compongo il numero dell’organizzazione per farmi venire a prendere ..... ma ovviamente non c’é campo. Non ho altra scelta di provare ad andare avanti da solo, proprio mentre comincia a piovere ... il divino sceneggiatore comincia a prendersi troppe libertá! Tra innumerevoli tentativi di riattivare l’articolazione, dolorosi minuscoli passi in avanti e disperati tentativi di retro-camminata su sentiero, impiego due ore per avanzare di quattro forse cinquecento metri trovando finalmente copertura di rete. Chiamo l’organizzazione e vengo localizzato tramite il GPS che ho nello zaino; di comune accordo decidiamo di non allertare l’elisoccorso, visto che a parte la gamba che non riesco a piegare sto bene e, con l’aiuto di qualcuno, dovrei farcela a percorrere un paio di Km fino a Chenel, dove é possibile arrivare in auto. Quando riaggancio provo, mi vergogno a dirlo, quasi un senso di liberazione: ho perso, sono stato sconfitto ma piú di cosí  non potevo fare e devo per forza essere in pace con me stesso ... ma ancor oggi non sono convinto che sia davvero cosí !

Striscio penosamente incontro ai miei salvatori, un uomo ed una donna, che finalmente vedo venirmi incontro un altro paio di ore dopo; con il loro aiuto, un po’ a gamba zoppa sorreggendomi sulle spalle di Mario, un po’ in retromarcia guidato dalla ragazza (mi rendo conto adesso di non averle chiesto il nome), giungo all’abitato dove mi viene offerta un’ultima possibilitá che lí per lí non esito a rifiutare, ma che non ha poi cessato un istante di rimbomabarmi in testa e forse mai lo fará, almeno fin quando un giorno arriveró forse a Courmayeur con le mie gambe. Devo decidere se salire in macchina oppure tentare di continuare a scendere da solo lungo il sentiero verso la base vita di Valtournanche, tre o quattro Km avanti e 600 metri di quota piú in basso.

Le mie convinzioni giá si incrinano quando venti minuti piú tardi, con il sole che fa nuovamente capolino dopo la pioggia, metto i piedi fuori dall’auto di fronte alla base vita e con frustrante meraviglia mi rendo conto che, passate ormai cinque ore dal grippaggio, riesco nuovamente a piegare il ginocchio. La prima persona in cui mi imbatto é Fabrizio, il trailer abruzzese, cui solo ora rammento di aver chiesto la sera prima a Gressoney di procurarmi l’Oki che stavo terminando: nonostante il concorrente cui faceva da accompagnatore si fosse giá  ritirato, chissá  da quanto é lí  ad attendermi con entrambe le mani piene di dosi, il misericordioso pusher. Ultimo esempio, ma solo in ordine temporale, della favolosa solidarietá  di cui ho potuto godere nel giorno della mia agonia sportiva, che ha pero’ coinciso con emozioni positive parimenti intense, capaci di commuovermi ad imperitura gratitudine.

Entrando in base vita insieme ai miei salvatori il chip mi registra regolarmente, ma loro dicono all’addetto che mi sto ritirando. A questo punto, ormai fuori tempo perché ne potessi onestamente usufruire, la beffarda sorte sembra voler darmi un’altra possibilitá: il cronometrista mi chiede se sono davvero intenzionato al ritiro, proprio mentre Graziano mi informa che qui ci sono degli ottimi fisioterapisti ed i due del soccorso si allontanano, come a lasciarmi appositamente campo libero, omettendo di dire che ho fatto gli ultimi 4Km in macchina. Sinceramente la mia esitazione, se poi si puó definire tale, dura qualche frazione di secondo perché, ammesso ed assolutamente non concesso, che mi avessero in qualche modo rimesso in piedi e permesso di continuare, quale soddisfazione avrei avuto, anche nella piú remota delle eventualitá , a terminare la gara sapendo di aver clamorosamente barato? Probabilmente sarebbe andata a finire anche peggio, trovandomi ancora bloccato nel prossimo colle con la Fata Turchina Mattea a rimproverarmi della cattiva azione ed il Grillo Parlante giapponese ad esercitare le sue atroci manovre sui miei poveri arti.

Dopo 240Km percorsi in poco piu’ di 100 ore, mi rassegno cosí all’umiliazione delle forche caudine. Mentre impassibile osservo il giudice tagliar via impietoso con le forbici l’angolo del pettorale, avverto una dolorosissima fitta al cuore: me ne é stato appena asportato un pezzo!